Monday 20 October 2008
Racconto tra i vincitori del concorso '911 minuti' indetto da Porsche Italia
Il Paese che non c’è
Il Paese che non c’è è sepolto nel cuore dell’uomo. Piccolina, già lo sapevo e lo cercavo nel tocco d’una mano bambina. Lui, innamorato di me; noi, già innamorati della vita. Il grembiule, la scuola, l’oratorio, tutto ci separava dal futuro e allo stesso tempo, al nuovo ci avvicinava. La prima volta che uscii dal guscio da sola, come una lumaca che ha perso la casa, m’avventurai su nave verso la Trinacria, non meno misteriosa, per me a sedici anni, di un atollo polinesiano. La traversata fu tempestosa. Fui probabilmente l’unica a non vomitare l’anima e domineiddio appresso a quella. Oggi, dopo tanti mari esistenziali attraversati, so perché la Madonna di Loreto, già allora sicuramente mia protettrice devotissima, - Lei a me, quanto io a Lei! – mi sostenne e m’aiutò a superare tanto dolore e sconquasso. Negli anni ho proseguito il viaggio indirizzando la ricerca anche per vie di cielo e terra e sogni e a furia di girare m’accorgo che c’è dell’amaro quando, al rientro, chiudo la porta di casa alle spalle o lascio che cali un sipario d’amore.
Il libro “Profumo” di Suskind, mi sconvolse quando lo lessi, ma allo stesso tempo mi rapì. “Perché”, analizzavo? Perché della vita, della gente, dei luoghi, io stessa annuso gli odori. Mi lecco le dita e inghiotto i sapori, mentre con gli occhi bevo i colori. Di notte trasmigro, a volte, ed ecco, una di quelle notti, un fiume largo color dell’ocra distendersi e offrirsi alla mia vista del cuore. Ma non era acqua a chiamare, bensì terra e monasteri e stupa. Ero un’aquila reale in volo sul Tibet immobile e quasi inviolato. Non mi spaventai d’essere tanto in alto.
Coi piedi gonfi e gli occhi assonnati, ho girato dal vero quella che al ritorno ho definito la “mala isla”: Cuba. La sua capitale, Havana, sorriso inquietante di labbra truccate impudentemente spalancate su denti oscuri e cariati; ridondante puttana che ha vissuto le proprie glorie e si ostina a presentarsi con l’abito della mistificazione. Simbolo di illusioni perpetuate oltre il limite dell’umana decenza, è per me rimasta la città degli alberi offesi, verdi e crestati di fiori arroganti e aranciati, che numerosi e possenti la ombreggiano e quasi la velano, a sguardi poco attenti alla realtà delle cose. Alberi incredibili, liane intrecciate come pensieri nella mente di un pazzo. Havana, culla di fasti e vite opulente ormai consumate, la cui traccia rimane segnata sui muri e sulle facciate di case che non hanno un senso. Finzione, apparenza, follia di volute e colonne e colori impossibili si appaiano a decadenza al limite della decomposizione. Ho percorso angoli - anche quelli più nascosti – cercando, smarrita, di saggiare lo spessore della mia dignità, che mi permetterà di scivolare via, un giorno, a lato dello sfarzo di una vita vissuta.
Nella stessa città maitresse ho subito il fascino della Santera più famosa di Cuba: passa le giornate seduta appena a ridosso dei portici, a incantare passanti con l’imponenza della mole e col nero profondo della pelle che spicca sotto le vesti bianche. Il vero richiamo viene dagli enormi iris rosso sangue appuntati sul turbante, evocatori di riti ancestrali e sapienza iniziatica. Impossibile per me, strega e maga in quest’anima vagante, resistere al magnetismo che emanava. Accoccolata sulla piccola sedia offerta ai consultanti, mi ponevo in ascolto con cuore aperto. Le prime parole non mi stupivano. Fissandomi con occhi roteanti e svaniti la donna aveva mormorato: “Sei come me, una veggente,” e proseguito infilando una banalità dietro l’altra: era un lavoro turistico che svolgeva nella pubblica piazza, - senza impegno. - Poi, all’improvviso, per farmene dono, aveva impastato sulle labbra sapore di parole vane e colori e profumi e sostanza dei fiori carnosi i cui nomi andava sciorinando. La mia amica, cassiera del gruppo, aveva porto tre dollari. La Santera aveva fatto intendere che l’offerta doveva essere a misura di quanto si snodava la cantilena, - che per me era stata lunga – “… coppa d’acqua dove respiri, tuberosa dove cammini, giacinti e garofani negli anfratti, fiore di giglio dove ti bagni…” - aveva cantato investendomi con la grevità sfiancante di ogni fiore, - ”Ma da te va bene, va bene così,” aveva sussurrato attraversandomi con lo sguardo.
Trinidad, - a seguire, - Trinidad… Il suono potente del nome mantiene intatta la forza evocatrice di atmosfere da favola antiche e inquietanti. Pirateria e saccheggio e mercificazione di carne umana. A quelle radici succhiò latte tanta bellezza. Immagini oscure si aprono varchi attraverso i fili incantati della memoria e bruni e inebrianti e preziosi come chicchi di caffè, snodati e sgranati dalla magia delle invisibili dita del profumo dell’aria che la permea. Merletti e porcellane e luminarie e illusione di ricchezza che non ha vie di fuga. Ma in libertà è concesso agli sguardi rubare respiri e caldi e indolenti e intimi all’interno di spazi e retaggi di opulenze che si offrono al tramonto in guisa di primedonne in vetrina. Trinidad che si agghinda e si veste di musica e si regala – oggi - in spettacoli di piazza Trinidad viva oltre la vergogna di un tempo che continua a occhieggiare famelico dai meandri dei vicoli Trinidad e la vuota Chiesa immacolata nel guscio che abbraccia a stridente contrasto altari lignei e intricati e scuri come la pelle dei nativi Trinidad e le brune fanciulle incoronate e splendenti negli abiti da parata con cui festeggiano il varco della pubertà per non cominciare a morire a quindici anni. Trinidad senza punti e senza virgole. Trinidad che si difende.
Dietro l’angolo del finto lusso si snodano strade acciottolate, file di pareti umide, e penzolano lampadine fulminate lasciate appese così ché cambiarle costa caro: un dollaro. Si allungano figure di femmine ormai adulte e disincantate che ingombrano i marciapiedi facendo il verso di strofinarsi le braccia per far capire che chiedono sapone. Ma c’è anche una salda rete di solidarietà e dovunque si dividono i turisti in maniera equa. Coscienza, forse, di un uguale livello di povertà da superare senza fare invidia a nessuno. Trinidad e le vie collaterali ristrutturate che rilucono nella notte con i colori pastello sfumati dai riflessi dei lampioni di foggia antiquata. Trinidad carne e passione frammento sospiro fame cristallo prezioso nel grembo di una terra povera. Trinidad, un delirio e un affronto.
E stata poi la volta di Bahia, del Pelorinho e delle botteghe e delle pietre preziose che non sai se veramente sono preziose o fingono di esserlo, e del nero coi ricci biondi e gli occhi verde gatto che stupiscono e che s’inventa cicerone e t’avverte di tenere il tesoro nascosto; e dell’isola di Morro de Sao Paulo, dei trattori che percorrono l’ex-paradiso in lungo e largo, sbuffando e annerendo l’aria con le esalazioni del combustibile. Dove sono finiti i vecchi dell’isola, e la bellezza delle mangrovie che intrecciano radici come mani d’amanti, e il mato con gli enormi favi di termiti giganti da guardare con occhi sgranati come quelli dei bambini davanti alla prima spuma di mare? Non sopravvivono dunque i vecchi all’urto del vento salato, dell’eterno, violento soffiare tra le foglie degli alberi di cocco? E’ morto l’amore nel cuore delle radici delle mangrovie, soffocato dai rifiuti che s’appendono a ogni ramo? Quanto ancora, prima che si spenga lo sguardo rubino negli occhi dell’uomo che fu innocente?
E ancora, di ieri, Andalusia, vicina tu, terra da toccare allungando la mano. T’ho sognata, evocata per quello che di te non conoscevo, per non averti ancora attraversata. Fiori. Rossi e turchini e gialli e donne specchio di quegli stessi fiori, impazziti sotto il sole d’una terra che si offre in declivi frondosi macchiati d’ulivi e di grano baciato e piegato e ombrato da vento leggero. Le tue donne le ho amate, riamata nell’invito e nel gesto d’offerta d’uno dei loro fiori appuntato tra i miei capelli, in un giro di flamenco inventato alla Feria del Caballho. Siviglia e i Barrios, de la Cruz e Triana, e Cordoba e la Mezquita e un raggio di sole sulla porta dorata ormai opaca e sprangata. T’ho amata, nel saluto gioioso di Annerose, tedesca con cuore del sud. Sono venuta con viaggiavventure. Alla fine del percorso, conoscevo il mio motto: yo no soy grupo o groupo che sia.
E dunque ancora ritorno, ritorno alla mia casagusciodilumaca d’un tempo fanciullo e incamero domande che, furtive, intrecciano segrete risposte.
Terra, che di te ho toccato con piede veloce luoghi, città dal volto di Giano, amando l’ombra del profilo girato, la donna legata e i fanciulli ignudi, le mosche negli occhi e la tenda isolata, proteggi i tuoi spazi dall’uomosqualoserpente dai denti aguzzi che tutto inghiotte ingrassando la carne. Difendi creature da fame e regimi che bevono dollari come mojto. Del Paese che non c’è brucia i semi l’uomonero e gira e volta e volta e gira confondendo vita e pegni. Velati Madre, se occhi arroganti girando ti spiano.
Il Paese che non c’è dorme sopra a un aquilone con la coda sempre in tiro, è una giostra, un girotondo, figurine ritagliate, nenie azzurre di Chagall. Ti ricordo, Terra antica di giganti e grandi eroi, e finché il fiato mi sostiene, ti dipingerò su niente nelle notti a luna inquieta, per scoprire la mia tela finché il sole sorge a est.
Il Paese che non c’è, l’ho trovato a notte, ieri, rimestando in fondo al cuore.
Laura Onofri
9 giugno 2006
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