Monday 27 July 2009
Saturday 18 July 2009
Thursday 2 July 2009
Parodie: pensierino
Mi fanno noia gli spunti. La banalità mi disturba. No ajo gana a' continuari. Tornate magari tra una decina di giorni...
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Inizia qui il foglio di Laura Onofri scrittrice. Una raccolta di racconti, stralci, prose liriche, riflessioni, dipinti e quant'altro sentirò di voler condividere con voi. Grazie per essere entrati. Viola Magmar
Citazione da: Federico Botero e la forma:
“Quando si guarda un quadro, importante è capire dove nasce il piacere. Per me è la voglia di vivere che scaturisce dalla fisicità delle forme. Perciò, cerco di creare la fisicità attraverso le forme.”
Intuisco un di più. Un senso di intima percezione della serenità interiore traspare dall’apparente fissità delle immagini, fissità negata poi dalla magnanima ridondanza plastica e cromaticamente appassionata delle figure, quasi rassegnatamente carnali, su sfondi che non attentano all’essenza del giardino segreto dei personaggi.
Repellenti nei tratti, enormi e mostruose nelle forme, - nella comune accezione del bello -, come il Buddha, le sue creature si ristanno, quiete e morbide e osservatrici, e seppur impigliate nel moto perenne delle sfere celesti, si stagliano, regalmente distaccate da una realtà che al loro sentire rimane apparente.
Eppure, la corrente vitale che l’artista trasfonde nelle sue opere, scorre con la potenza di un eros travolgente; le scuote dentro, ed esse rispondono, come una terra che trema e ogni cosa sommuove.
Splendidi, i nudi di donna carichi di erotismo primordiale, dall’incarnato rosastro della pudicizia manifesta attraverso gesti lievi e coperture minime, velate appena, più a segnare una via, una suggestione del piacere, che a occultare arcani femminili.
Il maschio, l’uomo, un’apparizione, a volte marginale, altre di necessario complemento all’esaltazione della femmina carnosa e carnale. In Botero, la femmina non è mai l’Eva peccatrice. Ella tenta con l’innocenza del suo consapevole esistere.
Struggenti, le piccole macule di colore acceso che, con tocchi apparentemente inconseguenti spuntano sulla pelle e tra le chiome maliarde delle sue donne burrose. A mirarle, si spalanca come una voragine di fame atavica, la stessa fame che assicura al pianeta la continuazione della specie.
Piccole mani e piedi incongruenti, mammelle minime e fuori posto che nulla rubano all’abbondanza già piena del corpo intero. L’artista non è, egli stesso, soggetto passivo e l’uomo che è in lui e che si manifesta nelle sue pitture, non anela a succhiare il latte materno da un seno che gli fu negato.
Riconosce la necessità del distacco e immergendosi nella pastosità delle forme che lui stesso partorisce, si nasconde al loro interno, ne trae piacere e consolazione e istiga il maschio a divenire intero, ricongiungendosi alla figura archetipa pre-esistente la Caduta dall’Eden.
Con visionarietà e orgoglio restituisce al mondo, in un impeto di femmineo desiderio di contribuire alla creazione della materia corporea, le due mezze mele, ricomposte in lui attraverso la passione per il piacere che dà vita, espressione indispensabile e imprescindibile per il raggiungimento di un equilibrio tra gli elementi che costituiscono la sostanza dell’universo intero.
Laura Onofri
3 marzo 2011
Un caso giudiziario
L’uomo sbagliato: Daniele Baroni.
Una storia vera
Un film per la Rai
Che ci vuoi aggiungere
alla disperazione di
un innocente privato malamente
del sapore della libertà di sbagliare passi
oltre sbarre di prigione
che non gli toccava di soffrire?
Di niente la puoi infiorare
una storia così,
salvo che per una volta
i buoni vincono e i cattivi pagano.
E lei l’ha a s p e t t a t o
Sei anni di speranze inventate
che d’un tratto hanno trovato la via
per diventare realtà che restituisce alla vita dentro se stessi
Alla vita fuori
E lei l’ha aspettato
Perché l’amore è kosì
Tocco questa verità con mano
e l’adulta consapevole che mi abita
p i a n g e
Piange come fanno i bambini indifesi
violitaElpisDalFondoDelVasoDiPandora
Esiste? Non esiste?
La Cosa Giusta
è quella farsa
già
messa in atto da
Pilato.
Per lavarsene le mani.
La Cosa Giusta
è una nuda
astrazione crudele
e chi la inghiotte
si sazia di sé.
Unicamente.
violitasalomonica
Mano accarezza
Lieve il piede
Come fosse bocca
Di sposo
E lo inghirlanda
Per la festa
A venire
violasogno
Custodire per non morire. After Tsunami
a mia nipote Emma, infante
La Terra inquieta
si agita
e le acque terribili
divorano.
Violita,
custode pacata,
culla dal fianco una speranza.
Piccola.
Vitale,
f o r s e
Immensa
violitasilenziosa
è bellissimo leggere:
“…noi non ci perderemo, Alchemist ∞ Viola forever, una viola che ti sta sempre accanto, ti sta accanto come sai, e attento a non farti accorgere da altri che poggiata contro la schiena, il fiato sul collo e le labbra sulla tua amata pelle, c'è questo fiore che ti ripara e ti cede il suo profumo…”
e ti ringrazio per queste parole dolcissime che sono davvero un grosso aiuto, a un lavoratore per tirare avanti. Sapermi ricordo indelebile, come tu lo sei per me, mi regala davvero tanta forza interiore...
Ecco: per mille e uno motivi - tantissimi, insondabilissimi nel loro insieme - si viene a creare la rocambolesca situazione del triangolo, a cui in realtà uno dei lati risulta corroso e smangiucchiato. Magari due lati. Praticamente tre.
Riflessione: se i lati non sono smangiucchiati il triangolo non si forma manco a schiattare, nemmeno per un minuto. Figuriamoci due. Infatti, qui abbiamo un quadrato.
Ciack:
m’impadronisco al volo della parte dell'altra - come dire, più dinamica -, il cui legittimo fa una vita marziana.
La come dire, “canonica”, è insediata su un trono che vuoi o non vuoi, è il suo e dunque, sen rista’ assisa su certi allori per via di un'antica forma di accordo.
Chiude la figura geometrica 'u fitusu', che si inventa di essere Pegaso. Alla fine scoprirà di essere Icaro. O forse era davvero Pegaso. La faccenda rimane sospesa tra le parentesi delle seguenti parole:
"... e fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del
cazzo?" gli domandò.
Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatrè anni sette mesi e
undici giorni, notti comprese.
"per tutta la vita" disse.
8.04.2005
Oltre ad aver arricchito il mio guardaroba personale, negli anni, ho fatto sì che la mia fantasia commissionasse per te abiti che ad aprire gli armadi, li vedi... sono più ricchi e sontuosi di quelli della nostra Isabella Marchesana. Ho spronato e seguito un numero insostenibile di maghe dell'ago e del filo, sarte, creatrici, ricamatrici, filatrici e cercatrici di perle e rubini e diamanti e zaffiri e smeraldi. Capisco... tutta quella sontuosità ti è piombata addosso come un moderno bulldozer. Ma io te li ho regalati e te li lascio in magnanima eredità... peggio per te se pesano. Le mie intenzioni erano splendide.
Metro Goldwin Myer presenta (dalla storia della vendita di apt materno, cui la sottoscritta si dedicò, contro occultissima volontà sororale)
Re-incontro dopo tempi duri. Due sorelle e altri. Ore 16.30, 14 marzo 2011. Zona Cipro. Roma
Da indagare con mente quantica ovvero, adusa a fare salti mortali
La signorina Serbelloniviendalmare (sottoscritta) attendeva, allo sbocco di salitina 'nu poco squallida di uscita automezzucci - aho, manco 'na Ferrari, manco 'na Porsche aggio mai visto spunta' da chilla salitella!-, attendeva, dicevo, ignara e sfranta da notte totalmente insonne, la vaga riprendritrice di inaccettabile assegno bancario di offerta scatenatrice di furibonda cacciata della sottoscritta dall'eden familiare: assegno accettato a proposta per acquisto abitazione materna; ella, l'assegna-tora, come gemella di Meg Ryan: uguale sputata! - allorquando... vede scivolare silenziosa e lenta e fantasmica sagoma, inconfondibile e per il colore e per l'assenza di velocità che sempre ne caratterizza l'andare, di una automobile vecchio stile, squillante color giallouovosodo, ma sodato come fosse fresco.
La sagoma si defila e la Serbelloniviendalmare sente che sta per compiersi uno sprazzo di destino.
Infatti, dopo breve, scorge in avvicinamento l'inquietante Fantozza (sorella irosa e irata della Serbelloni etc etc) stretta e praticamente sostenuta nell'incedere, tra due figure incongruenti (pseudosedicenti interessati ad acquisto). Che vorrà Fantozza, mi spia dunque la Fantozza, tentando di mimetizzarsi tra due colonne - una quasi a nasconderla con la sua imponente figura?
Oppure, visto che piove mi inviterà a fare una passeggiata insolita e demenziale sul suo pattino a due posti regolamentari più due aggiunti, ma che comunque se nun li paghi bene te butta de sotto! Pattìno fatto a mano con rotelle incorporate, che lo rendono idoneo anche per navigazione su marciapiedi, perché la Fantozza è una che sa il fatto suo!
Nossignori, la Fantozza, nell'incrociare lo sguardo attonito della signorina Serbelloniviendalmare, ondeggia e tenta di fissare il focus del suo bulbo oculare sulla figura che spunta improvvisa alla sua vista (alias Serbell...) fuoriuscendo dall'interno di un'auto che, all'improvviso, riconosce familiare. Quasi scivola lei, stordita e attonita, miracolosamente sostenuta dalle provvide colonne dei sedicenti possibili acquirenti.
L'aria si immobilizza, ma è solo questione di una frazione di secondo... La Serbelloniviendalmare si slancia, va incontro, scosta la tenda capillifera che stranamente si è come depositata sul capo della Fantozza, quasi a volerne determinare una totale mimetizzazione e la saluta affettuosamente. Insomma, Meg Ryan nel frattempo arriva, straccia improvvido assegno e poi sen va. Il trio Fantozza-colonne si avvia e Serbelloni , assegno stracciato, lo raggiunge. La conversazione riprende come se in Giappone non ci fosse stato nemmeno lo tsu-nami. Le colonne sono tornate nello Stretto di Gibilterra e di acquistare il bene hanno solo finto. Comunque, la via è aperta al miglior offerente che di certo, presto arriverà. Fantozza e Serbelloni etc etc celebrano la ripristinata parola scambiata, con puntata in trattoria.
Fantozza, confortata da un succulento piatto di spaghetti allo scoglio, mezza porzione di frittarello da dddio, e macedonia imperiale, trasognata e trasecolata, sulla via del ritorno ha sussurrato: ma non ci vuole venire lei, signorina Serbelloniviendalmare, (interprete dei suoi sogni di gloria assistenzial-infermieristica), a vivere proprio qua, dinanzi a casa mia, a portata di pattìno, se non proprio di mano... oppure a farci 'o bedde end brecfast? La Serbelloni sostiene e indirizza il volante dell'auto che le sta riconducendo fino sotto la casa della Fantozza. Lascia che il capo si volti lentamente e posa un rapido sguardo sul volto dell'inesauribile soggetto che ancora tenta di marcarla stretta: no cara, carissima Fantozza, non sarebbe la scelta giusta e poi io tengo quattro tesori da sistemare e mica li posso tenere a mollo per troppi anni che i tesori la luce, devono godere, quella tanta che se ne può convogliare. E chi si accontenta gode. A ciascuno la sua. E quella dimora che fu materna non mi appartiene nel sentire, ma sappia che l'aspetterò per farle gustare ospitalità e panorama nel luogo che ho scelto di eleggere a mia futura, prossima, spero, abitazione. Lei sa bene, Fantozza che ogni mano necessita del suo guanto. E guardi, remi. Remi con la sua fantastica barchetta a rotelle, che i giretti del palazzo ce li faremo anche in tempi di siccità. Perché le sue rotelle sono state una grande invenzione! Lei è geniale, Fantozza. Ma io rimango zitella. Libera di esprimere l'affetto e la considerazione per come posso e so. Che è l'unico modo per amare gratis.
Lei resta un mito Fantozza. Si tolga quella parrucca rossa tutta ricci che a vederla così, spaventa. Sembra tutto mia sorella:=)! Tifate, tifate. Continuate a tifare che questo è sempre meglio de La Corazzata Potemkin!!!
kisskiss
Ieri ho sentito un crepitio sotto ai tacchi. Eri tu? E’ stato come celebrare delle esequie. Per noi. Ahi que dolor, mi querido amor…
Sempre ritornano - modificati, per fortuna - anniversari e anni che fanno parte del colore della nostra pelle, ormai...
Ma la pelle cambia, serpenti che siamo... e il lago conquista un fondo insondabile fino a cui nemmeno il pensiero vuole più arrivare... e il miracolo bussa, per manifestarsi...
Oggi tua figlia..
Armata di speranza,
mal corazzata
contro un dolore
annoso,
ha preso carta e penna
e s’è illusa di contare.
- Chiudi la porta,
rispetta chi ha freddo -
spicca all’ingresso di casa.
- Tieni pulita la cucina,
rispetta gli altri. -
- Bevi solo acqua,
rispetta te stesso -
ha incollato sullo sportello del frigo.
Poi è uscita,
per non vedere
che era inutile,
per non gridare
Latte di serpe di Laura Onofri
Delos Books, collana Odissea Atlantide, pagg. 108, euro 10,00
Una nuova voce femminile si affaccia sul panorama italiano con un romanzo denso di erotismo, di sofferenza, di forza vitale. Il bildungsroman di una donna che “ricostruisce” da sola la propria educazione sentimentale.
La formazione di una giovane donna del sud, passata attraverso esperienze profonde, di quelle che segnano e che possono distruggere, ma che, se superate, si trasformano in un’eccezionale molla per la costruzione di una personalità.
È con un romanzo di questo tipo che Laura Onofri si affaccia sulla scena italiana. Latte di serpe, in uscita per i tipi di Delos Books non è un’opera che passa inosservata, perché ha in sé una molteplicità di elementi: l’erotismo, certamente. Quello forte, vissuto, appassionato e reale che solo le donne conoscono. Ma anche la capacità di accogliere tutto ciò in un percorso, rendendolo vero, espressivo, funzionale a una narrazione ricca e articolata.
Una storia italiana
Annunziata, anzi Nunzia — come la chiamano in famiglia – è la protagonista di Latte di serpe. La sua è una storia che può sembrare eccessiva, ma che in realtà è assai più comune di quanto si sospetti e di quanto, ancora oggi, si voglia indagare. Giovane della gioventù repressa di una ragazza del sud, cresciuta in una famiglia dove tutti sembrano occupare il posto che compete loro e dove invece ciascuno indossa una maschera. E lei, che di maschere non ne vorrebbe, si ritrova a dover fingere e a tacere. Perché quello che le capita è l’essere oggetto delle attenzioni sessuali prima del fratello, pur amato, poi del padre. È così che avviene la sua scoperta del sesso, che lei, dotata di una passionalità spontanea e di un corpo giustamente volitivo, vorrebbe libero e sincero.
Il suo percorso diventa così una strada in salita, un cammino di ricostruzione: per riappropriarsi di se stessa, del suo corpo, della sua mente. E per riconsegnarsi intera all’appuntamento con l’amore.
Fonte: www.delosbooks.it
EROTISMO ALL’ITALIANA: Arriva in libreria una nuova autrice italiana, con un romanzo di formazione dalle forti tinte dell’erotismo vero, vissuto e appassionato.
Andando avanti nella stesura, ho descritto incontri e scene che mi hanno riportato alla mente il tempio di Khajuraho, in India, poiché il personaggio si espande e con lei prendono diversa consistenza gli altri. Gli scultori del tempio, che già sapevano dell'umana natura, hanno plasmato corpi nell'argilla, infondendo in essi il soffio di una splendida, vitale carnalità legata al contatto con l'universo. E’ questa, l'energia cosmica che muove lo spirito di Annunziata, depositandola infine, su un piano di consapevole partecipazione alle forze delle Creazione. Ed è per questa sua totalità, che ella rimane incolpevole, seppure, non più innocente.
Lo consiglio vivamente. Mi ha riconciliato con la lettura di quegli autori italiani che a quanto pare non hanno nulla da invidiare né da temere rispetto ai più, a volte ingiustamente, quotati autori latino-americani. Sorprendente. Una scrittura ammaliatrice, unputdownable come direbbero i più scafati "anglo-americani.
Grazie, Fabio
1.Il Muro come simbolo archetipo di protezione dall’esterno, metafora dell’utero materno. Ma dall’utero si deve uscire per poter sperimentare la vita. Dunque, l’esigenza di varcare il limite spaziale imposto dal concetto di Muro.
7. Il Muro a mezza altezza: simbolo di un incontro a mezza via con le proprie certezze interiori: siamo spaventati a metàJ e creiamo una provocazione spaziale che ci spinga a osare.
8. Il senso di confinamento imposto dal Muro viene esorcizzato attraverso l’abbellimento delle pareti, perché esse non rimangano un nudo divisorio ma lascino spazio alla fantasia, che permette all’uomo di travalicarlo.
2.Nel corso della sua evoluzione l’uomo ha perso la protezione dei peli che ne ricoprivano il corpo, dunque, vieppiù, il Muro che circoscrive e permette di trattenere il calore, lasciando fuori ogni forma di eccesso caldo-freddo-umido.
3.Il Muro come simbologia di sostegno, di mezzo per realizzare un ambiente confortevole e caldo, ricco di colore o, al contrario, privo. Il Muro quale espressione di intime necessità del fruitore dello spazio individuale.
4.L’uomo primitivo scopriva la sessualità notturna all’interno del gruppo, ma si appartava con la compagna nel fondo della caverna, su giacigli riparati ad altri occhi da pelli di animali: il Muro-nido che circoscrive l’ambiente al cui interno l’uomo ha l’intima necessità di raccogliersi per esprimere i propri vissuti affettivi, di nutrirli, per poi condividerne la crescita con l’ambiente esterno.
5.Il Muro che offre la consolante possibilità di sfilare, insieme a scarpe e indumenti, la maschera che spesso la società, “il fuori”, impone d’indossare.
6. Il Muro quale simbolo di ostacolo da abbattere, scavalcare e superare; di forza interiore da sviluppare. Stimola la speranza di poter uscire dai limiti.
6bis. Il Muro quale mezzo di difesa e protezione da un esterno che può essere minaccioso, e che definisce comportamenti e psicologie sociali di collettività che hanno acquisito un forte senso della materialità della vita: ogni cosa appartiene ormai al singolo e dunque va nascosta, pena la sottrazione da parte di terzi. Il muro è “l’altro”.
Il Muro quale elemento che si frappone tra la vita e la morte, evento ultimo che si tenta di lasciare fuori.
9. I Murales quale espressione di creatività non ingabbiata, o mezzo per esprimere una forma di rabbia interiore, un po’ come tirare un calcio violento contro un pallone.
9.1 Il Muro: una sfida, un ordito su cui intrecciare la propria trama.
Il Muro di una cella: confinamento estremo subito in vita, gradino appena inferiore alla morte.
6tris. Il Muro di Berlino: sbarre erette da un regime. La luce della libertà sottratta impunemente sotto ai raggi di un sole che scotta ma non brilla. Un Muro che pur all’aperto, toglie l’aria che l’uomo ha bisogno di respirare.
10. L’abbattimento di un Muro: l’uomo rimane padrone del proprio destino. L’uomo è nato libero, ma nel corso dei tempi ha eretto le proprie prigioni. E’ tempo di riconquistare gli spazi.
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Laura Onofri
- Nonna, me lo racconti il paradiso, e mi spieghi perché al catechismo dicono che non si trova più per via che l’abbiamo perduto?
- O che sei grulla! Quello è un posto per finta, come codesto nome spaesato che ti volle appioppare la rincitrullita de la tu’ mamma! Tutti ne parlano, del paradiso… ma nessuno l’ha mai nemmeno potuto fotografare! Se ti metti buonina ti posso inventare una di quelle storie che ti piacciono tanto, ma devi tacere, che stasera ho la gola secca, - sai, noi vecchi che abbiamo visto troppo, a volte rimaniamo senza voce per dire... - .
Marula soffia sui carboni del camino, gli occhi accesi e le trecce spettinate, ansiosa e già affascinata. La conosce bene lei, la sua ava encantadora, come la chiama per via delle fantasie che riesce a spacciare per cose vere. “Fatti", sussurra la vecchia quando Marula la guarda con le labbra atteggiate a un sorriso incredulo.
- Mi vedi, son tutt’orecchi - risponde, e con la mano tira via fili di capelli che, disordinati, gliele coprono, le sue belle orecchie da bambina curiosa.
- Dov’ero, non me lo ricordo già più... ah sì, dovevo ancora incominciare - dice l’encantadora fingendo d’essersi spersa. Fa parte del suo gioco per attirare l’attenzione.
- Nel paese più lontano del mondo, che è anche il più alto, c’era un signore che seminava parole. Al tempo del raccolto, chi giurava di vedere campi di lenticchie e chi di girasoli. Altri credevano di tirar su manciate di fiori di campo o tanti ciuffi di prezzemolo. E tutti erano contenti. Il seminatore era il più felice di tutti, perché sapeva che così era giusto che fosse. Sappi che ognuno vede quello che vuole vedere. E dato che ci siamo, ti dico che per il paradiso è la stessa cosa. E credi a me invece che alla monaca: ma come si fa a perdere una cosa che non si è posseduta mai?
- Ma che mi vieni a dire?
- Così è, figlia mia.
- Figlia tua? Ma non sei mia nonna?
- Però… mi chiamo… Maria.
violitafavolara
L’onore dei Prizzi
e lui con lei
un volo
champagne
una canzone da stordire
un giuramento
e poi...
un coltello conficcato nella gola
e un’altra voce
e un’altra storia
è morta la memoria.
Ditemi, ditemi almeno il titolo
della canzone che mi si è conficcata in cuore.
violitaNocheDe...?
Che valore hanno le poesie...: a meno che non siano esercizi di stile, false e costruite, le poesie sono una forza della natura, e a quella fonte attingono, per comunicare quello che la faglia di Sant'Andrea manda a dire quando un terremoto scuote la Terra.
Nascono per spaccare: che sia una scorza dura, un cuore d'argilla, una montagna che non riesce a spostarsi, - la roccia da vincere, - le poesie hanno il potere del suono primordiale fatto parola, nel segno grafico.
La poesia è un verso, un sole che incendia l'orizzonte a quasi notte, un'onda che culla o annega. E' una ferita che s'apre sperando di chiudersi in cicatrice. La poesia è dono di sé.
Ma ci sono creature fatte di un materiale inattaccabile. Su di loro, la poesia scivola, lasciando una patina di compiacimento, come traccia di lumaca passata di lì per un soffio di gloria.
Le tue poesie sono come perle di vetro.
violapensiero
'Latte di serpe', di prossima ri-edizione, è una storia che vive di toni profondamente carnali, come carnale è la vita, ma è scevro da compiacimento erotico; è piuttosto un viaggio attraverso la formazione e lo sviluppo di certi meccanismi psicologici che sfociano in comportamenti sociali sotterranei, ma non per questo meno virulenti, nel vissuto di persone che sono prodotto e mescolanza dell'ambiente che li plasma. Annunziata, la protagonista, è una creatura speciale. Vive le proprie emozioni con passione e sfrontatezza, ma non perde la via dell'intelletto. Cerca e trova, dentro di sé, una forma di equilibrio, spinta anche dall'amore per un figlio verso il quale si assume ogni responsibilità, nonostante la violenza subita dal padre e un rapporto di amore incestuoso con il fratello. Annunziata non si nasconde e non si martirizza. E' denuncia e riscatto di sé. Annunziata si fa amare e si lascia amare.
Il tema trattato nel romanzo, presentato al pubblico nella sala conferenze di Palazzo Portinari a Firenze il primo maggio 2004, non ha mai perso la sua drammatica valenza, ma oggi torna alla ribalta a causa della recrudescenza, nel nostro Paese, di una forma di aggressività bestiale nei confronti delle donne.
Eppure, vorrei interrogare, chiedere a chi da anni ha detenuto il potere di cambiare le cose e a chi oggi lo detiene, perché tutto d'un tratto sembra di aver scoperto ancora una volta la famosa 'acqua calda'...: la violenza sulle donne. E' gia spuntata perfino una Onlus che chiede fondi. Da sempre, la donna è vittima di ogni forma di violenza, anche quella amorosa, che troppo spesso è stata e ancora oggi è, vissuta come una forma di possesso esclusivo, a guisa di oggetto, e tante parole sono state spese a riguardo. Fatti, pochi e in qualche maniera, con effetti, a mio giudizio, perfino devastanti.
Trovo grottesco il modo in cui ogni penoso fatto di cronaca si trasformi in pastura per avvoltoi. Non mi sento 'informata', se e quando mi capita a tiro un articolo o una notizia data dal telegiornale, e vieppiù mi sento presa in giro quando dopo, e soltanto dopo certi accadimenti, si smuovono polveroni.
Sono ormai tanti anni che ho preso coscienza del fatto che gran parte di ciò che spacciano per 'informazione' è solo una piattaforma virtuale per impartire comandi subliminali a chi ha la mente permeabile a certi impulsi. Condizionare, è l'imperativo. Sviare il pensiero della gente, deformare per far credere. Confezionare pretestuose forme di verità e spacciarle per Verbo. Utilizzare i fatti di cronaca e politici, i mutamenti sociali e quant'altro abbia la possibilità di far presa su un popolo che è diventato semplicemente pubblico assorbitore di tutto questo, oggetto da sfruttare per mantenere in piedi fama, carriere e introiti.
Ieri, Michele Santoro e la violenza sulle donne. Dove sono stati finora, il serafico Travaglio Marco e l'aggressivo Santoro Michele? E tanti altri, se per questo. Dacia Maraini, intervistata di recente a proposito di questo dramma, almeno, con la sua splendida storia 'Marianna Ucrìa' aveva lanciato la sua parte di grido di dolore e di denuncia.
Tutta questa pseudo informazione, talk show, personaggi opachi e il cui pubblico apparire non lascia traccia se non quella di un'immagine immortalata come per errore da qualche moviola demotivata. Ci è stata tolta perfino la possibilità di interloquire in diretta. Ora, tante scimmie a battere le mani mentre labbra mute si atteggiano a sorrisetti compiaciuti o a smorfie, a seconda di quale pulsante sia stato premuto nel loro cervello, dal politico della corrente di appartenenza della claque.
Ci voleva tanta violenza,per portare a galla un po' della melma che sedimenta fin dentro le case della gente - quanta... ci rifiutiamo di immaginarlo. Leggo storie di donne da tutte le parti del mondo, donne ormai adulte, forzate a diventarlo... donne che dietro a una forma di identità virtuale trovano la forza per parlare, fosse altro per scaricare una tensione che senza sosta genera un dolore inenarrabile e frustrazione.
La rabbia di per sé non basta. Il mondo è pieno di storture che la provocano, storture a cui bisognerebbe smettere di concedere spazi e attenuanti. Chi sbaglia paga. Riappropriarsi del diritto di poter vivere una vita civile è un compito doveroso, insieme ai tanti altri che dovrebbero incombere sulle nostre coscienze di esseri che hanno generato. Generato figli per un mondo futuro. Mondo. Se sarà baratro, noi saremmo oggi tutti condannabili: assassini dentro.
...e non solo...
…all’improvviso una domanda preme… State chiedendo con il cuore? Allora, è giunto il momento di scoprire cosa c’è nell’aria…
Scrivete a latte.diserpe@libero.it
Uso interno:
Per la tosse e le irritazioni delle vie aeree
Infuso
Mettete una manciata di fiori di viola mammola in una tazza d'acqua bollente e lasciate in infusione per almeno 15 minuti. Bevete dolcificando con un pò di miele.
Tisana di viola
Raccogliere i fiori di viola durante la fase di massima odorosità, quindi essiccarli accuratamente e velocemente.
Mettete in infusione una quantità di fiori essiccati a piacere, secondo i gusti individuali, in acqua tiepida. Lasciare riposare un poco e filtrare. Zuccherare, aggiungere qualche petalo una parvenza di scorza d'arancia.
E' una tisana ricercata, buonissima, rara da gustare e di sicuro effetto sui vostri ospiti.
Uso esterno:
Per le contusioni e le scottature.
Decotto
5 g di fiori in 100 ml di acqua. Fare lavaggi e applicare compresse imbevute di decotto sulla zona interessata
La viola mammola in cucina
Le foglie più tenere della viola mammola (più comunemente nota come "violetta") possono essere mangiate in insalata, mai da sole, spesso unitamente ai fiori che conferiscono profumo e bell'aspetto estetico. Con i fiori si confezionano canditi e creme profumate.
Ricette stampabili:
Erbette di campo e grano
Fiorellini nel ghiaccio
Fiori di violetta canditi
Frittelle di violette
Viola scrive ma… ama molto leggere. Ha fatto esperienza di editing e sarà lieta di ricevere i testi che vorrete sottoporle.
Lo scrivere in toni di follia sventata
è preziosità del genio amante della vita.
Leggo e rileggo come fossero pagine del mio sentire
e m'innamoro anch'io della sostanza d'ogni parola
e di quella ho imparato a memoria a nutrirmi
senza mai esserne sazia
e intanto sono arrivata alla fine della quarta sigaretta accesa una dopo l'altra,
e mi gira la testa,
e dalla finestra aperta è entrata una libellula che m'è finita tra i capelli,
quasi in picchiata.
E Praga è bellissima e rossa e color del verderame e rosa e turrita e misteriosa,
e ho camminato per il vicolo d'oro degli alchimisti
e attraversato con occhi e meraviglia
le mille e più fiamme delle vetrate d'una cattedrale
bella da mettere i brividi.
E Praga era divorata da turisti frettolosi e avidi di guardare.
Una città spogliata da occhi che vanno di corsa,
come una nudità, anche quella, da lasciarsi alle spalle,
- solo da attraversare -.
E Praga, come ogni luogo, era per me una ferita di solitudine.
Amoreconlamaiuscolaamorescrittoinpiccolo,
purché sia una forma d'amore da poter dire è mio,
in questo momento,
l'amore,
e davvero ci sono mani intrecciate...
E quanti ne ho visti,
fondersi uno nello sguardo dell'altro,
per splendide,
insostenibili,
sciocche
leggerezze dell'essere.
E c'è stato il battello e la Moldava
che di niente si cura e tutto porta via,
risate e pellegrini e anatre e perfino una bottiglia che galleggiava
e io già c'indovinavo chissà quale messaggio incastonato dentro
e mi sarei tuffata per raccoglierla e sedermi sulla riva a leggerlo
e scoprire che era
mio.
Invece ho lasciato che andasse così,
inutilmente.
E magari era vuota, la bottiglia,
e a causa di questo pensiero mi accendo ora la quinta sigaretta
e ho appena scoperto che non era una libellula
ma una mostruosa zanzara gigante che sono riuscita a spiaccicare
e tanto era grande che cadendo ha prodotto un rumore.
Che non è normale, per una zanzara.
Allora, per ogni sigaretta inghiotto mandorle,
ché le mandorle, come me, hanno il cuore amaro,
e a Praga ho perso la via della dolcezza,
e un sapore, se non te lo ricordi, non ti dovrebbe mancare.
Ma poi, sperduta tra le righe di un diario, è arrivato, pungente,
il gusto della differenza.
Ora l'ho spenta, la quinta sigaretta, premuta a forza nell'incavo di un posacenere rosso rubino.
Che le ho fumate a fare, che adesso mi dico domani faccio a meno?
violacheèstataladonnadelleorerubate
ladonnadeigiorniferialichequantol'hoodiata'stacosachefamale
violachequandoèchepotràessereladonnadiungiornointerodaspartire?
Oh no, come tu ami le parole io amo seminarle.
Elementare Watson, elementare,
e domande non mi pongo al di là e al di dove ché forse,
- solo forse -
ho imparato che tanto non vale non vale non vale,
ché le risposte portano in vena l'ombra di un inganno,
perché certezza non è fantasia e fantasia non può soffrire ceppi
e se così fosse dovresti dare alle emozioni un altro nome.
E un altro nome lo puoi dare alle cose.
Quelle che se cadono si rompono solo in apparenza,
ché sul banco del mercante ne ritrovi cento copie
- ché ordinarne meno non si sprecano neanche a consegnarle -.
E già questo Nilo che scorre è ricco di humus
e l'Egitto è verdissimo,
tra una striscia insostenibile di deserto e rocce
e quella sponda di fiume che altero lo possiede
e tu che lo attraversi e sgrani gli occhi, ti soffermi
e la maestosità t'inghiotte e la tenuta del colore
antichissimo sulla pietra ti risbatte contro,
tu resta quieto,
ché avanti a te l'acqua del fiume scorre
e non c'è secchia che la potrà occultare.
violitainviaggio
E se bussa l'uragano
cuore mio non ti strappare
ché sei cuore e non sei vela
e non son aghi a ricucire
e se bussa da lontano
scendi col fiume e stringi la mano
e se dietro fu già amore
e tu credevi di morire
sappi oggi che è troppo lunga
la via di quella morte
e in vita non ci puoi arrivare
e sappi oggi che soltanto per rinascere
si muore
e io nasco ancora
pelle nuova sopra
antico cuore
scarpe chiodate a consumare
e come vorrei smettessero di sfinirsi questi chiodi
oggi è stato giorno di festa
io ho lavorato
e ancora a notte
non sono stata pagata
e non volevo monete
ché quelle sono gesto da mercante
volevo quello che non m'hai regalato
e soltanto coi regali
si allungano certi ponti
violitavorrebbeaprirelafinestra
Andai a cercare fra gli amati libri e ritrovai, da ‘Ka’, di Roberto Calasso, in cui si narra di Sati, figlia di Daksa, che volle partecipare al grande sacrificio, a cui Shiva non era stato invitato. Shiva non si oppose, pur conoscendone l’esito:
“Se tu vai, non ne ricaverai alcun bene.” Lo disse distogliendo lo sguardo perché l’essenza della tristezza vi era discesa. “Concedimi questa grazia, lasciami andare,” rispose Sati. “Non posso trattenerti,” disse Shiva. Daksa, per la prima volta nella sua vita, si distolse dal sacrificio. Lo videro volgersi verso Sati, che sembrava l’attendesse. Sati cominciò a parlargli in un sussurro appena udibile: “Tu, soltanto tu puoi azzardarti a essere il censore di ciò che è. Così condanni me, che un giorno chiamasti Sati, Colei-che-è. Tu, soltanto tu puoi elencare le infrazioni che commette colui del quale il mondo è un respiro: Shiva. Tu scacci la pienezza come un oscuro vagabondo. Tu credi che il mondo sia edificato dai tuoi riti. Tu credi che tutto risieda in quei gesti. Tu hai escluso il tutto dai tuoi invitati. Tu offri il sacrificio a tutti, ma non al sacrificio. I fiori dei tuoi riti sono una pioggia che cade dai piedi di Shiva. Tu non puoi vivere senza compiere il sacrificio, ma io sono il sacrificio.”
Daksa la ascoltava rigido, pallidissimo. Bisbigliò poche sillabe, che soltanto Sati poté udire: “Dove ti ritroverò?” Mai la sua voce era stata così dolce e inerme. Sati rispose con un bisbiglio quasi identico che soltanto Daksa poté udire: “Mi ritroverai dovunque, in ogni tempo, in ogni luogo, in ogni essere. Al mondo non vi è nulla dove non sarò”. Chiuse gli occhi. Una vampa si sprigionava dalle profondità del suo corpo. Era la fiamma, che eruppe dall’interno e la consumò, lasciandola eretta, una statua di cenere.
Nella lontananza della pianura si disegnò un grumo nero nell’aria, che si espandeva a spirale. “Da dove viene questa polvere?” sussurravano le donne. “E’ il dio che sbrana le costellazioni”, disse la moglie di Daksa. Il sacrificio contemplava il massacro. Quando tutto fu compiuto, una pioggia di fiori scese dal cielo, nell’aria improvvisamente limpida. Si posarono sui corpi piagati. Navigavano nelle pozze di sangue. La distruzione del sacrificio di Daksa, la più radicale critica del sacrificio, fu interna al sacrificio: dimostrò che irresistibilmente il sacrificio diventa massacro. Questo anticipava il corso di tutta la storia non più aggiogata al sacrificio. Il presupposto fu una semplice lesione dell’etichetta, di tremenda eloquenza. Ormai il sacrificio non riusciva più ad accogliere la totalità del reale, se Shiva non vi era invitato. Così l’escluso si vendicò. Poiché Sati era bruciata dall’interno, il suo corpo rimase eretto, calcinato, sullo spiazzo sacrificale.
Shiva tornò sul Kailasa. Si guardò intorno e vide che la luce lunare isolava una schiera di piumini e pennelli, dal manico di madreperla, e accanto qualcosa di un bianco giallastro: la ciotola da mendico. Fissò gli oggetti che gli facevano resistenza. Erano ciò che lo assediava. Le fitte feroci per l’assenza di Sati. La sorda pulsazione della colpa. Ricordò le storie degli amanti torturati, di coloro di cui tutti ignorano il nome. Abbandonò il Kailasa ed entrò nella Foresta dei Cedri per vivere la passione del lutto per la morte di Sati. Ogni amante ama innanzitutto un’assente. L’assenza precede la presenza, nell’ordine gerarchico. La presenza è solo un caso particolare dell’assenza. La presenza è un’allucinazione di una certa durevolezza. Ma questo non diminuisce minimamente il dolore. Nella Foresta dei Cedri la vita era tranquilla, pressoché immobile. Era la pienezza? Era il vuoto? Era il tedio? Era la liberazione? Era il ricordo? Era la rinuncia? Era la felicità? Nessuno giunse a saperlo con certezza. Nell’immobilità abitava anche il dubbio.”
Amor c’a nullo amato amar perdona...
dolore che dall’amar trasuda,
poiché non c’è perdono all’ardire di amare.
v i o l a c h e s a d’a m o r e e d i d o l o r e
Eppure, noi siamo infiniti, grazie al dono della percezione d’amore.
Non togliermela.
Non perderla.
E’ l’unico tesoro che ci rende grandi,
eternamente collegati con la Luce.
Ti amo come sei, nel fondo del tuo fondo.
Azzurro e folle, visione di Chagall.
Adesso sfuggi, se puoi, oppure rendimi il maltolto.
Onore alla dama.
Combatta il cavaliere.
violacicrede
Dormi in un letto
che non è il mio
Penso pensieri
che tu non sai
Ritaglio spicchi
che non ti offro
pensando che un giorno
li assaggerai
Mentre cammino,
sguardo all’indietro
vedo festoni
del nostro Natale…
data fasulla rubata
e inventata
Sei la mia sposa… hai sussurrato
ma fino al grido
non sei mai arrivato
violitamaninude
…di candele, di viole e dell’eroe sbadato
Stanotte ho l’anima stesa,
appesa su filo di panni,
al lume di una candela che
il vento non riesce a
spegnere.
Sventola la sfacciata,
per un eroe di
mille battaglie che
ogni giorno muore
inciampando
in un intrico di viole.
Sfacciate, le viole,
ogni giorno a
risollevar corolle
per sopravvivere all’eroe.
violitanelcuore
Un bacio a Cefalonia nel settembre del '43 valeva più di mille baci spersi oggi su bocche sofferenti d'ignavia e le parole che d'amore non ebbero il tempo di svelarsi erano profonde e vere più di mille chiacchere inventate per girare intorno al nostro dire. Un sospiro a Cefalonia nei giorni da centellinare pesava quanto Morte che già s'affacciava per vincere. Rimase delusa la Morte, perché baci e parole e sospiri dei defunti restano nell'aria e neanche Lei pur Signora li può cancellare. Pesa sulle mie spalle oggi la cecità dei padri di allora. violitainsilenziocuorestrangolato |
"Fin da piccola sapeva che un giorno si sarebbe messa a scrivere, perché capiva che la vita, così come era, non le poteva bastare. Lei, sempre, doveva essere esagerata. Nei colori dei suoi pensieri ritrovava se stessa, gli altri - conosciuti e sconosciuti, il profumo di un fiore, il grido di un animale ferito, lo splendore abbagliante del Sole, e quello velato della Luna… Si srotolavano come nastri e fiocchi colorati, di quelli che volteggiano nell’aria. Non di quelli belli arrotolati nelle vetrine dei mercanti. Quelli lei, non sapeva nemmeno che esistessero. Istintivamente comprendeva che il suo linguaggio proveniva da un punto dello spazio suo - della cui esistenza aveva sempre sospettato. “Uocchie mal’uocchie perzemole e fernuocchie…”. Ci s’affacciava questa sua napoletanità. Brevi espressioncelle. Chiacchere inventate nei vuoti della solitudine, in un qualche dialetto che affiorava dai crocicchi del cuore suo, quando ci soffiava forte il vento che li sparpagliava, e dentro al quale lei sempre amava affondare le mani, per tirarle su e lanciarle nell’aria pulita e sospesa dei cieli suoi. Perché il vento se le portasse chissà dove e ancora più lontano. Mai, volevano uscire tutte saporose di neve fredda, come le parole che soffiano coi venti del nord. Erano sempre parole del sud. Perché il sud è calura è turbine è esplosione. E’ dolore che può sbranare anche quando si presenta dolce come una cassatella siciliana. Allora sì che il vento con loro ci sta bene. Il sud è vivere la vita. Uno col sangue del sud magari ti ammazza, ma poi si scusa e si segna la croce.
Man mano che li accarezzava, i suoi ricordi si facevano sfacciati. A mani aperte e a gola spiegata, si aggrappavano alla fantasia, come fosse stata la criniera di un cavallo. E mentre nella corsa il cavallo li strattonava, nemmeno loro sapevano più dove finiva la storia che li animava, e dove incominciava l’incantesimo della fantasia, che trasmutava i sogni in una realtà fantasticata. Gorgheggiata. Storie da cantare. Storie da fischiettare. In mezzo a questo turbinìo, lasciavano trasparire le inconsistenti sembianze dei fantasmi del suo eterno divenire che, con il loro vago riapparire, la invitavano in qualche modo, a penetrare nei meandri di se stessa. E lei li voleva ringraziare, con la semplicità di una bimbetta che qualcuno avesse aiutata ad attraversare una strada, per tutte le cose che le avevano insegnato a sentire, a capire. Le erano spuntate le ali. Era piena di ali. Sulle braccia, sulle gambe, intorno al collo e, se lo sentiva, anche sulle punte dei capelli. Sicuramente gliene stavano crescendo chissà quante dentro, perché sentiva solletico dappertutto. “Avranno bisogno di aiuto queste ali…” si preoccupava, sospirando fra sé. “Perché hai voglia che crescono con tutta la buona volontà. Ma da sole…Io sono troppo una che pesa.”
Mia madre diceva: “tua nonna…”. Dietro ogni spigolo di casa c’era questa presenza che incombeva - specie al buio, come un pipistrello -. E nemmeno una fotografia a renderla reale
“Tua nonna era dura, mai un sorriso, una carezza. E’ a causa sua che sono cresciuta incapace di esternare a te quello che provo. Però era bella.” Che voleva dire, con ‘era bella’? Aveva capelli lunghi, crespi, oppure lisci, oppure corti? E gli occhi, come potevano essere gli occhi di una donna che ancora non era diventata mia nonna?
Nonostante la nominasse di continuo, rimaneva uno spettro e io non trovavo il coraggio di porre domande. Neanche il nome sapevo, di mia nonna, un ramo tanto importante del sangue mio. L’unico fatto di cui ero venuta a conoscenza, per vie traverse - quasi bisbigli, quasi mormorii nei sogni agitati di mia madre - era che l’ultima donna della famiglia proveniva da Napoli e che da lì erano passati anche gli americani. Noi abitavamo a Milano, che era stata la città di un miracolo e che perciò era tutta un’altra cosa. Così diceva mammà: “Milano ti dà da vivere, anche se non sempre ti guarda per dritto”. Lei lavorava in casa di un commissario di polizia. La stimavano perché era onesta e svelta a fare i lavori.
Non facevamo la fame, però il tempo andava impegnato a lavorare. A scuola ero stata iscritta ma spesso facevo assenza, perché mia madre portava a casa i panni da lavare e io li stiravo. A volte capitava uno strappo, allora m’ingegnavo di rammendare. Entrava qualche lira in più. Facevo anche la spesa - ero brava a tirare sul prezzo anzi, lo facevo per divertimento, un gioco per imparare a trattare col prossimo, a non far vincere sempre gli altri -. Girare per il mercato mi piaceva, perché c’erano i contadini e con loro mi trovavo a mio agio. Parlavano in dialetto e io lo preferivo all’italiano, una lingua che scavava distanze. Mettevo insieme una specie di cena per quando lei rientrava. Aprivo la porta e da come varcava la soglia capivo di che umore fosse. Se lo faceva con una piroetta che le riusciva sempre bene quando era contenta, mi voleva comunicare che dopo il lavoro si era incontrata con un bel giovanotto. Del fare all’amore ancora non sapevo. In quel caso, se erano spaghetti, nell’acqua ce li buttavo io, ché mia madre era impegnata a ballare senza sbattere contro i pochi mobili della nostra casa di bambole. Piccola e ingombra. I libri mi attiravano, ma restavano roba da ricchi.
Ero cresciuta con nozioni vaghe sulla guerra che aveva portato gli americani fino a Napoli e un pezzo delle radici mie fino a Milano, con mezzi di fortuna. Se ponevo domande, pur infantili, trovavo un silenzio ottuso, a rintuzzare un argomento proibito. Da certe imprecazioni che, simili a giaculatorie, sfuggivano dalla bocca di mia madre, intuivo che per noi - noi, anche se io a quel tempo non ero nemmeno inserita nei programmi di famiglia - non si era trattato di un momento propizio.
C’erano state le gomme da masticare, vero; la cioccolata e le calze invece dei calzini corti indossati con scarpe dal tacco appena appena alto; le ragazze che uscivano col rossetto rubato da una bancarella al mercato di Forcelle in tasca e il pettine nascosto nell’elastico delle mutande, per farsi belle appena svoltato l’angolo di casa, per non essere viste dai vicini e additate come poco di buono - non per il furto del rossetto, ma per la passione che accendeva gli occhi quando uscivano dalla porta correndo -.
Di queste cose narrava, mia madre, quando era in astinenza dichiarata di qualcuno che l’amasse come si ama una donna. Si guardava allo specchio, si piaceva e allora sfuriava: “ho bisogno d’abbracciare, cazzo”! Subito arrossiva e abbassava gli occhi, ma intanto io m’interrogavo su cazzi e abbracci e su chi fossero stati veramente gli americani che erano passati per Napoli; e cosa si fossero lasciati alle spalle; e di che colore fossero, veramente, e se ci si poteva fidare, degli americani. Avevo undici anni e non trovavo risposte. Neanche le domande giuste conoscevo.
Quando era di umore pessimo, la mia bella madre mi spaventava. Ogni poco ripeteva: “non andare mai dietro a uno sconosciuto. Se ti rivolge la parola tu strilla più forte che puoi. Ricordatelo. Ne va della tua vita. Pensa a tua nonna”. Parole così, invece che come un’amorevole raccomandazione, alle orecchie mie suonavano peggio di una premonizione. Di più: una condanna, una sentenza già emessa. Mi prendeva paura. Che intendeva dire con ‘pensa a tua nonna’ se poi di lei non mi svelava neanche il segreto del nome? Me la dovevo inventare io, la mia nonna dei misteri che sembrava non aver lasciata altra traccia di sé che una bava di rancore. Come una lumaca cattiva che di notte, a volte, mi correva dietro: una lumaca che correva più veloce di me. Una lumaca marziana. Sentivo i brividi che le cose sconosciute possono mettere sotto alla pelle. Allora sognavo l’America. Lontana e bella.
Mammà era un tipo non facile da descrivere: sembrava un incrocio, una mescolanza che non potevo definire: alta, magra ma con il sedere formoso, davvero sporgente; i seni stretti e appuntiti, tanto che d’estate i capezzoli premevano sotto a qualunque tipo di reggiseno o maglietta. Lei ne era orgogliosa e camminava impettita perfino dentro casa. Si chinava solo per lavare i panni e in poche altre occasioni e pure lì, non mancava di dare una sbirciata, quasi ad accertarsi che non si fossero mortificati. Dei capelli posso dire che sembravano usciti da un manicomio. Se non li appuntava, tirandoli e ungendoli con una specie di grasso, quelli si arricciavano e come le molle di un orologio rotto, schizzavano in ogni direzione. Neri, erano neri. Di un nero che insieme alla profondità dei toni della pelle che non si schiariva mai nemmeno in inverno, sembrava un nero sospetto.
Non osavo domandare. Ero forse nipote di un negro, figlia di una mezzosangue? Ma di che colore sarà stata, perfino mia nonna? E io? Da dove venivano, mi chiedevo sgomenta, senza poterne parlare con nessuno, le mie labbra troppo grosse e scure e i denti bianchi come se li lavassi ogni giorno con la varechina, che invece è veleno e non si usa per i denti?
Forse, se non fosse scappata a Milano, la mia nonna frenetica, qualcuno, a Napoli, certe risposte me le avrebbe potute fornire. Allora sognavo anche Napoli. Più vicina, magari bella ma sporca. Così sentivo dire dai milanesi. Che spesso tutto erano meno che milanesi specie quando, con accento marcato che perfino io me ne accorgevo, un accento che sapeva di sud profondo dicevano: ‘de Mmelano suogno!’. Allora pensavo che forse mi dovevo vergognare a confessare che noi venivamo da Napoli. Noi, anche se io ai tempi della fuga nemmeno c’ero. Ma le radici dei miei piedi, del mio albero, erano quelle. Me lo diceva il sangue, che agognava il mare e le risate della gente che si gode il sole.
Il commissario che pagava il pane di casa mia era una persona che lavorava sodo. ‘Di sicuro non sa nuotare’ pensavo, ‘e se d’estate va al mare la pelle gli si arrossa come pelle di uno che al sole non ci sta abituato’. Un po’ mi faceva pena. Comunque, mi sbagliavo, e già questa convinzione errata m’insegnò che l’apparenza inganna.
“A casa ci sta poco”, sentivo dire tra un’insaponata e l’altra della biancheria su cui di notte il signor commissario e signora si sdraiavano uno di fianco all’altra. “Nemmeno il tempo di fare all’amore, trova”, sussurrava mia madre tra i denti, mentre l’aiutavo a stendere i panni zuppi sul filo. Ma che ne poteva capire lei, solo lavando e stendendo lenzuola e federe e asciugamani? ‘La stoffa non parla’ mi dicevo, ignara del linguaggio segreto incagliato nelle trame. A me, la biancheria non si decideva a svelare il minimo particolare di quella vicenda, di cui non venivo mai a capo se fosse d’amore oppure no.
A volte osservavo la mia Filo (Filomena il nome che mia nonna le aveva dato, perché anche a Napoli, in certi momenti di dolore, la fantasia può venire meno) e cercavo di vedere cosa nascondesse dietro agli occhi che spesso teneva bassi. Se volevo coglierne lo sguardo, mi doveva toccare la fortuna di vederla veramente arrabbiata - di più – furiosa! Allora la stanza diventava rotonda, s’ingigantiva come fosse un mondo. La furia di Filo ci stava stretta tra quelle pareti anguste. ‘Se sei svelta abbastanza da entrare nel varco di quel lampo, magari un giorno riesci perfino a toccare tua nonna’, m’intestardivo, e quasi m’inventavo di vederne i tratti, dietro i lineamenti dilatati della mia Filo, che era bella, bellissima, anche da arrabbiata.
Ogni tanto rideva. In quei momenti m’assaliva il timore di perderla, perché la felicità può rendere folli e di notte sognavo che usciva di casa senza nemmeno salutare. Se ne andava, il braccio allacciato alla vita di un fidanzato vero. Per contro, diventavo taciturna io e più lei rideva e m’ignorava più stavo zitta e agognavo di vedere la faccia di mia nonna. ‘Sarà stata dura, ma seppure se la prendeva con Filo, io che ci potrei entrare? Allora dico che mi vuole bene e un giorno trova il modo di farmelo sapere.’ Anche se in vita era stata cattiva. O forse non era vero. Aveva soltanto subìto il dolore, senza avere il tempo di capire perché le era caduto in testa. E tra le gambe. Ma di questo fatto delle gambe, io tutto ignoravo, allora.
Il commissario era la persona più importante di casa. Della sua e della nostra. Oltre alla moglie, aveva due figli e mezzo: l’altra metà stava crescendo nella pancia della ‘signora commissaria’ - come la chiamava mia madre - che al contrario di mia nonna, di fare figli era contenta: tanti bei piccoli commissari vedeva lei, per soddisfare l’orgoglio del marito.
Da noi, ci stavo io, ma non sono certa che lui lo sapesse. Perché non mandava saluti nemmeno a Natale. Forse Filo non gli aveva detto niente: chissà se era riservatezza o una specie di schifo di vai a sapere quale peccato di mia nonna. Non parlava della sua vita con nessuno. L’avessi mai vista con un’amica…
Un giorno il postino, che mai prima s’era degnato di consegnare fosse pure una cartolina, bussò alla porta per via di una raccomandata: “posta urgente” comunicò. Firmai io la ricevuta, ché Filo si vergognava d’una calligrafia da ignorante. Però sapeva leggere e quasi mi strappò la lettera di mano. Era scesa dal terrazzo condominiale, con le braccia cariche di panni che alla vista dell’uomo aveva lasciato cadere sulla sedia. Aveva le guance arrossate e i capelli annodati ché il vento non li stranisse. Appena visti i francobolli e i timbri che quasi deturpavano la bella busta - che aveva fatto un bel po’ di giri - sbiancò. Eppure non le venne da tremare. Rimase dritta in piedi, come l’albero di una nave che non si piega nemmeno sotto la sferzata della bufera. A meno che non si spezzi. Il postino se ne andò e restammo noi due. Restò la lettera tra le sue mani, invadente e arrogante come una persona grassa che non ammette di essere grassa.
Era alta la mia Filo. Alzai il capo per vederla meglio in faccia. Le versai dell’acqua in un bicchiere da cui finse di sorseggiare, con un gesto automatico, come una che beve mentre dorme. D’un tratto persero d’importanza i panni lavati pronti per essere stirati e piegati e fui certa che perfino il commissario non rientrasse nei piani che le affollavano la mente così, tutt’a un tratto, tutti insieme. Purtroppo il contenuto della lettera era indecifrabile. Veniva da così lontano… Filo la collegò d’istinto alla reliquia.
Nonna, dove te ne stai nascosta? Se in vita tua hai fatto a meno dell’amore, adesso ti puoi riscattare. Aiutaci tu, che da lassù lo puoi fare’, invocavo con la passione cieca che si mette nelle preghiere ai santi. Poi mi prese male: ‘E se fosse finita laggiù’? Filo sembrava diventata Filomena da Napoli. Una popolana che tirava sassi. Si era riscossa ed era corsa a sfilarsi la sottana. Ancora s’allacciava il vestito e già era fuori di casa. Che la chiamavo a fare? Non avrebbe sentito nemmeno se, avvicinata da uno sconosciuto mi fossi messa a strillare più forte che potevo. Dissi appena, tanto per non rimanere proprio zitta: “Ma dove vai”?
Chiusi la porta, mentre davanti agli occhi miei colmi di spavento sfilava l’America con tutti gli americani e i negri e gli indiani e i bisonti e gli attori che erano veramente attori che baciavano le donne che credevano di essere attrici e a volte lo erano anche loro; sfilavano Napoli e le barche e quella temeraria cattiva di mia nonna che in quel momento aveva l’obbligo del sangue di diventare buona.
Non riuscivo a vedere i napoletani. Troppo sporchi e troppo poveri e troppi di numero. Non li volevo vedere, io, i napoletani che avevano fatto scappare mia nonna che trascinava nella pancia mia madre (non ne ero certa ma lo intuivo). Però, Napoli, la città, la mia terra… quella era un’altra cosa. Perché dallo sporco e dalla povertà la puoi ripulire. E i napoletani di troppo li puoi spedire lontano. E mi vedevo con una scopa gigante in mano e un panno da spolvero immenso: magico nelle mie mani, che diventavo l’angelo ripulitore di tutte le sporcizie che avevano impedito ai napoletani di trattenere una ragazzina spaventata e magari affamata. Anzi, due (di giorno in giorno quella diventava certezza). Un po’ li odiavo, i napoletani. Inconsciamente, neppure tutti gli americani mi stavano simpatici. In verità, nemmeno gli africani. In verità, bastava che fossero un po’ scuri di pelle o comunque nati in qualche terra lontana. O a Napoli. Questo fatto mi tormentava, mi faceva sentire strappata in due nel percorso che fa la linfa per tornare dalla chioma alle radici.
Il sospetto della perfidia di tutta quella gente sconosciuta mi era nato un pomeriggio in cui Filo, presa dalla malinconia, o forse per la necessità di sgravarsi di un macigno che portava sul cuore, si era messa a raccontare di un film. Lo raccontava come fosse la storia della sua vita. E mentre parlava, piangeva. Non spiegava il perché delle lacrime e allora piansi insieme a lei. Fu uno dei rari momenti in cui mia madre mi strinse al petto. Me lo ricordo come fosse adesso: l’amai come si ama una figlia. Eppure era mia madre, ma capivo che dentro era figlia anche lei.
Tornando alla sua uscita precipitosa da casa, risultò che nemmeno in quel momento d’affanno s’era dimenticata del commissario. Suonò al campanello di casa sua, a mani vuote. La busta infilata nel reggiseno.
“Aprite! Sono Filomena!”
La signora commissaria era sdraiata sul divano. Alla porta andò il figlio maggiore il quale, vedendola lì, fuori orario e senza nemmeno il pacco dei panni lavati e stirati, s’impensierì: “Che le succede”? Usava il lei, un po’ per educazione, un po’ perché a Milano forse è più difficile che diventi una di famiglia.
Non fece in tempo a farsi di lato che Filomena, come avesse inciampato in una buca, crollò in terra e quando finalmente rientrò il commissario, già stralunato per cose sue, trovò la famiglia in subbuglio. Poggiata al centro di un tavolo pulito, lucido e sgombero come una di quelle cose che stanno lì solo per riempire un vuoto, c’era una busta piena di francobolli, di timbri e scarabocchi. La notò, come si prende visione di un oggetto incongruente; vide che era stata aperta e allungando la mano, la sollevò. Filomena sentì come uno strappo, e invece di pensare che era lei che aveva necessità di mostrargliela, visse il gesto come un’intrusione, un furto e si allungò di scatto, contendendogli la missiva. Il commissario era avvezzo alle stramberie degli indagati, dei rei confessi che subito dopo strillavano che erano innocenti e che la confessione era stata estorta con l’inganno. Quindi, non si stupì né si alterò. Mantenne le dita serrate sulla lettera e con gesto deciso fermò Filomena a breve distanza da sé.
“Stai calma e spiegati, invece di dare da matta.” Le dava del tu, lui, perché Filomena non era una collega, un’impiegata, una che aveva studiato e che poteva sofisticare sulla differenza. Era una cosa normale. Anzi, in qualche modo lei si sentiva meglio a essere considerata un poco inferiore alle persone che il signor commissario frequentava fuori di casa. Si rilassava, a sentirsi dare del tu e magari era proprio per quel vago senso di familiarità che non ci aveva pensato due volte a precipitarsi a chiedere aiuto proprio a lui. Non alla moglie. A lui, che era anche un uomo istruito, che aveva viaggiato, che comunicava anche per telefono con gente strana: straniera, appunto. Lo sentiva, di tanto in tanto, al mattino presto, appena prendeva servizio, che confabulava al telefono. A volte parlava a voce alta, tanto lei non capiva una parola. Era come se non ci fosse. Intorno a Filomena si poteva parlare di segreti, in lingue sconosciute.
Fu una specie d’interrogatorio: si accomodarono in uno studiolo e seduti rispettivamente in posizione da interrogante e inquisita, la storia della mia nonna dei misteri e dei sette dolori e un pezzo della mia - ma davvero solo l’inizio, della mia - videro finalmente la luce. Anche se si era fatta notte. Su un tavolo incombeva il bianco di una lampadina da terzo grado.
“Mammà teneva quindici anni, ma ‘a guerra nunn’o vulette sape. P’a guerra, mammà andava bbuono.” Come fosse fisicamente tornata indietro negli anni, le parole si coloravano dei toni della prima infanzia, di quelli che uscivano dalla bocca della madre. Ma subito si ravvide, perché non si voleva vergognare più del necessario. Già la storia era meschina, brutta, crudele; ci mancava che la raccontasse col rischio di non venir capita.
“Mi scusi, volevo dire che… anche se era piccola, da noi, a quindici anni siamo già carne da macello. Vero che, tanto, se non era la guerra erano i vicoli. Da quelli di rado si usciva senza la pancia grossa. La pancia era un passaporto per la libertà dalla galera, allora tante donne facevano il contrabbando di sigarette per mantenere la famiglia e tenere al coperto gli uomini, che le ingravidano perché potessero continuare a lavorare. E perché in due, nel letto, lo sconforto pesava meno. Forse.”
“Nel mare di Napoli”, raccontava mia madre che l’aveva sentito raccontare da mia nonna - a quel tempo tutta la gente raccontava - “c’erano le navi americane, c’era la salvezza e a vederle lì che sembrava volessero vomitare soldati da un momento all’altro, tanti giovani s’incendiarono d’amore per la patria e di furore contro il nemico che fino a poco prima sembrava amico: i tedeschi avevano fucilato ’o marenaro’. Così, come le bestie. Ai napoletani toccategli tutto, ma i figli no. Solo le figlie, ai napoletani, quelli poveri, gli puoi toccare. Almeno a certi. Basta che paghi.
Si cominciarono a tendere imboscate ai tedeschi, ad ammazzarne quanti più ne riusciva di colpire. Ci furono rappresaglie; tanti anche i morti nostri. I tedeschi però, furono costretti a liberare quarantasette ostaggi che erano stati confinati al Vomero - e forse è per loro che la gente confonde il numero con quello del morto che parla, che poi non è vero: sulla Smorfia c’è scritto quarantotto -. O forse si sbaglia la Smorfia… Ma era tutta una confusione. La gente combatteva, moriva, e i tedeschi per ultimo sfregio, incendiarono un palazzo a Nola. Dentro ci stavano custodite casse su casse - strillavano tutti ai quattro venti, incendiati non solo d’amor patrio ma anche dal fuoco di fiamme vere -, casse piene d’ogni ben di Dio di carte e documenti che portavano stampata la storia di Napoli, e non solo quella. Ci stava il cuore dell’Italia in quelle casse. Dell’Europa. Così dicevano quelli che se ne intendevano. E il popolo analfabeta soffriva come fosse stato signore e istruito. Come se l’avessero privato di un tesoro da mangiare con gli occhi propri, fino a sentire la pancia sazia. Ché la fame era nera.”
Filo sembrava un libro attraversato da un fiume che avesse il potere di trasportare parole ed emozioni. Il commissario la guardava come non l’avesse mai vista prima. All’improvviso si rivelava la persona. L’ascoltava e sembrava risucchiato all’indietro: lo sapevano in pochi - lui stesso l’aveva quasi dimenticato - che tanti e tanti anni addietro qualche parente suo che veniva da un paese della costa calabra si era avventurato al nord, cercando di sfatare una leggenda di miseria. Una sorta di amore fraterno, come una voce del sangue, lo invase e lo commosse. L’ascolto divenne interesse. L’interesse gli accese dentro un fuoco che diceva ‘aiutalaaiutala’.
“Ma tua madre, così giovane, con chi stava tua madre?” E già sentiva una pena affamata per la propria, anche se quella era morta consolata tra le braccia dei figli. “Eh, con chi doveva stare, signor commissario… In bocca ai fratelli affamati più di lei, che la vedevano come una merce di scambio per sigarette, spaghetti, fagioli e zucchero e ancora cioccolata. Per quello una mattina scivolò fuori di casa pensando di potersela cavare. Ma prima era rimasta inguaiata.
Come in tanti altri vascie, il pane si stirava con le mani perché diventasse più lungo, dando l’impressione di pesare di più. I napoletani saranno un popolo disgraziato, ma per fortuna fanno figli. Anche le femmine sono tante. E le femmine, nella povertà, sono una risorsa, un investimento di quelli che cominciano a rendere presto. Con gli interessi. Mia madre, per grazia del cielo, e pure per disgrazia, che a dirlo è peccato, era anche bella e piena. Diceva che a guardarla, agli uomini si spalancava la fame di lei. E di uomini soli, di quei tempi a Napoli ne giravano più che i cani.
Sulla carta tenevo quattro zii. Oggi non so quanti ne saranno rimasti, ma pure fossero vivi, io li schifo, perché non ho mai regnato sul cuore di nessuno. Nemmeno mia madre, si vede che regnava. Una mattina la casa in cui abitavano si svuotò. Uscita la madre a fare contrabbando, uscito il padre insieme a tre dei figli, a cercare d’arrivare a sera con qualche cosa in tasca, rimasero lei e il fratello maggiore, che non era andato con gli altri e non si alzava dalla sedia. ‘Che è restato a fare’? si domandava ‘a piccerella. Dopo un po’ bussarono al vetro della finestra che dava sul vicolo. Una gamba lunga poi l’altra, il vano della porta diventò scuro. Nero. Nell’attimo in cui un filo di luce riattraversò l’entrata, lo zio traditore strisciò fuori come un fantasma, come un verme. Poi si fece notte. E giorno. E ancora notte e ancora giorno. E ancora.
Per via dei tanti giorni e tante notti mia madre ci guadagnò un materasso, con una tenda che la riparava dalla vista degli altri. Ma non era un vantaggio vero. Il materasso non era propriamente cosa sua. Era dell’ombra scura che entrava e usciva… entrava e usciva. L’ombra scura prese nome e indirizzo, che gli furono trafugati mentre affondava tra le cosce dell’agnello sacrificale: mia madre. Ma un giorno, non s’era fatta l’alba, l’agnello smise di belare e fece fagotto. La pancia s’intuiva già. Almeno quella, della vita sua, era una cosa che voleva salvare. Raccontava di aver attraversato la città che si svegliava, una città che la guardava con occhi ingordi. Non aveva paura di nessuno, allora, mia madre ragazzina. A notte si ritrovò in mezzo alla strada. Passò un camioncino coi fari bassi e lei si fermò, imbambolata e stanca. E si vede che la madonna le camminava a fianco, perché seduti dentro ci stavano marito e moglie che trasportavano cose da qualche parte fuori città. La fecero salire. Lo schifo e la paura la tenevano zitta, ma quelli non si meravigliarono. Erano tempi di segreti per tutti.”“Fu anche per questo”, prosegue il suo raccontare al signor commissario Filomena, “che nemmeno in seguito, raggiunta Milano, quell’anima ferita trovò il sollievo d’innamorarsi. L’amore era perduto. Rimaneva la pancia. Arrivai io. Nel tempo, cominciò la condanna di una processione di uomini che s’infilavano nel letto di mia madre e allora mi toccava dormire per terra, nella cucina rimediata. Ce n’era uno che rideva come un pupazzo caricato a manovella, mentre mezzo soffocato imponeva: “Apri la bocca, bella!”. Io vegliavo, nel terrore che le strappasse i denti. Nel terrore che uno più grosso di altri la schiacciasse mentre le rantolava sulla gola. Sì, perché non sempre mi ritiravo in cucina. Certe volte spiavo.
Non finì bene i suoi giorni, mia madre. Non erano tempi di compassione. Non aveva niente da lasciare, solo un biglietto, con dei segni scarabocchiati con quel po’ di calligrafia che aveva potuto esercitare, grazie a una maestra napoletana che si era presa pena di lei, quando stava in uno dei vicoli senza sole. Quando seppe che la morte stava seduta sul suo letto, sfilò un sacchetto di tela dal petto e me lo consegnò come fosse una reliquia. Dentro, un biglietto con un nome e un indirizzo: “Lo copiai di nascosto” disse, “prima di sparire. Conservalo, un giorno potrebbe servire. Era americano. E l’America è ricca, ricca assaje”. Se ne andò così, tra un ghigno di dolore, una parvenza di sorriso come di chi spera in un futuro migliore e un sussulto nelle vene, che l’ultimo fiato glielo fece uscire nell’unica lingua che veramente amava: quella napoletana. Ma non aveva capito niente, e nemmeno io, allora, perché l’America è troppo grande.
A quel tempo avevo già più di vent’anni e non mi aveva permesso di uscire con chi, fosse pure da lontano, sperava di diventare un fidanzato mio. Non mi era pesato più di tanto, perché, viva lei, nemmeno io sentivo la voglia di provare altro che nausea, al pensiero di un uomo che mi stesse a fianco, mi toccasse come facevano quelli che dopo che l’avevano toccata la maltrattavano. Ero vergine, signor commissario - a lei lo posso dire, che è come un confessore -. Era inverno. Trovai lavoro presso un fornaio, vedovo e senza figli. Era giovane. Vicino al forno, a notte, faceva caldo come fosse estate. Io m’arrossavo tutta e i vestiti di lana peggioravano la situazione, perciò mi portavo il cambio: un camice di cotone bianco che tenevo chiuso dentro un armadietto, nel ripostiglio del negozio. Non mi ero mai vista allo specchio, col camice indosso. Lui mi guardava. Impastava in una maniera che metteva il fuoco dentro. Impastava… tagliava e modellava il pane come fosse carne. Quelle mani me le sentivo dappertutto e non mi veniva schifo. Divenne un’ossessione.
Dimenticai ogni cosa: la processione di uomini; il suono della voce sguaiata che diceva ‘apri la bocca bella’ come fosse un ordine. Come fosse un padrone. Cancellai dagli occhi il corpo del grassone che avrebbe potuto schiacciare quello smagrito di mia madre. Passai un colpo di spugna sulla reliquia che mi aveva lasciata come un’eredità, come una croce piena di spine che a un certo punto, per miracolo, invece di farmi solo sanguinare, col sangue già versato ci avrei potuto concimare un orto di monete d’oro. Soprattutto, cancellai la voce di mia madre. Fu allora, che la seppellii per la seconda volta. Forse per la prima. Rimasi incinta presto e prestissimo senza lavoro.”
S’era fatta notte inoltrata. Il commissario però era sveglio e ascoltava ormai incuriosito anche, a proposito della reliquia; del profilo delle gambe di un’ombra scura impresso nella memoria di una ragazzina impaurita; della processione di uomini nudi che era seguita poi; di una bocca aperta a forza e di denti forse strappati e di occhi affessurati a spiare. Sentiva una specie d’avidità risvegliata, avidità di sapere dal vivo da quale seme nascono i drammi, le distorsioni del comportamento umano, la violenza che acceca e fa calpestare ogni cosa che si frappone tra il bisogno, il desiderio, la fame dello stomaco e quella della carne, che lui non conosceva: oltre ad aver sempre mangiato due volte al giorno, si era sposato giovane, con una cattolica rigidamente osservante che gli teneva a freno la curiosità dei sensi, ché non rischiasse di strabordare in delirio. Attraverso i figli, la casa e soprattutto la passione per il lavoro, sublimava ogni desiderio fuorviante. Aveva ragione Filomena, a porsi certe domande, anche se lui non sospettava che lo facesse.
A furia di parlare, a Filomena s’era seccata la gola e tutt’a un tratto ricordava che non era lì per scaricarsi di ogni peso. Aveva bisogno d’aiuto: “La lettera, signor commissario! Mi deve leggere quello che c’è scritto e il nome di chi la manda e gli indirizzi cancellati e poi qualcuno me la deve copiare, così me la posso vedere con calma… studiare. Signor commissario, è tardi e non abbiamo concluso niente!”.
Non era proprio così: parlando a cuore aperto, Filomena era diventata umana agli occhi del commissario. Una creatura che non solo si svegliava e entrava la mattina per lavorare in casa sua; una persona che non solo portava un intrico sulle spalle, un intrico come fosse una cassa troppo pesante da trasportare, ma anche una femmina con l’ossatura ricoperta di una carne che d’improvviso s’era fatta viva e scura e carica d’un frammisto di odori che lui, nonostante avesse il fiuto di un bravo commissario, non aveva percepito prima e lo colse come una frenesia di annusare. In fondo al sangue si risvegliava il malaugurato delirio. D’improvviso orgoglioso che si fosse rivolta a lui per aiuto, tornava a osservarla come se fino ad allora non l’avesse conosciuta e quasi con passione cominciava a decifrare i nomi scritti sulla busta - che gli si presentavano come i segni che dovevano attraversare le carni del ventre di colei che da quel momento sarebbe diventata per lui l’emblema della femmina, - confermando subito che la lettera era stata spedita dall’America, più precisamente dal Sudamerica: portava il timbro postale di Bahia. Salvador de Bahia; successivamente inoltrata da Napoli.
Girava, la testa del signor commissario ma lui, avvezzo all’autocontrollo, la teneva ferma. Impazzita e immobile. Filomena, come stordita da quel folle luccichio che pur mantenuto strenuamente a freno saturava l’aria intorno a loro, restava muta: vedeva solo nero. Una maledetta processione di uomini neri. Non sapeva che in Brasile ci nasce gente di tutti i colori, perfino nera con gli occhi verdi; e bianca coi capelli crespi; e ambrata coi capelli neri e lisci; e nera di pelle e bionda, né riccia né liscia. A lei il verde non era toccato. Solo i capelli crespi. Forse, in comune avevano una specie di miseria. Ma perché la lettera non veniva da New York, piuttosto… In qualche modo si sentiva truffata: dov’era l’America ricca, quella ricca assaje? ‘E come si poteva nuotare fino a Bahia, fosse mai caduto l’aereo’, indagai io il giorno che pensai le avesse dato di volta il cervello?
“Che vergogna che sentivo in petto, mentre parlavo col signor commissario delle tristezze delle cose mie”, mi svelava in seguito la mia Filo, quando finalmente mi metteva a parte dei fatti a cuore aperto, sapendo che in certe famiglie si diventa grandi presto. Mai abbastanza, però, da non sentirsi inermi di fronte a una storia di violenza raccontata come una fantasia di orchi. Il resto non me lo risparmiava, pensando così di vaccinarmi contro la cattiveria degli sconosciuti e i tradimenti del sangue, che a volte non scorre per il verso suo. Aggiungeva che mia nonna, dopo la sua nascita, li aveva perdonati e aveva mandato a dire dove si trovavano e anche se non aveva avuto risposta, era sicura che, passata la fame della guerra, le volessero bene e la rimpiangessero ‘perché’, sognava convinta, aggrappata a pensieri che nel ricordo si facevano carichi di necessità, ‘quando il sangue finisce di scorrere per il verso sbagliato, poi non gli resta che tornare sulla via dritta’. “Tu non t’illudere però. E sappi che io e te li dobbiamo schifare”, ammoniva in chiusura la mia bella madre risvegliata.
Si trovò bene, Filo, nei panni di Filomena-ohi-Filo-mia-impazzire-mi-fai. Agguerrita, vagheggiata e un po’ consolata. Con l’appoggio e qualche carezza profonda e calda - quasi paterna, a tratti - e colpevole e nascosta e spaventata e avida del signor commissario che intingeva ormai a piene mani nel sangue caldo di Calabria e che a quel punto sapeva che esistevo anch’io - prendeva contatti con la rappresentanza brasiliana a Milano. Per me fu come entrare in guerra. Divenni la truppa al comando di Filomena, che non ebbe necessità di cambiare nome, poiché il suo risultò internazionale e non difficile da portare. Una curiosità: quando nacqui mi chiamò Maria Addolorata, un nome che sembrava m’avessero dipinto addosso col pennello. Specie negli anni in cui fantasticammo di dover combattere per mare e per terra e nell’intrico del mato. Un giorno mi ribattezzai: Maria Dolores. Pesava meno.
Accadde che per poco non partimmo. Il signor commissario rubava i minuti alle giornate sue colme di preoccupazioni e veniva a inciampare nel corpo di mia madre che si dava a lui ridendo e mangiando allegra quello che si guadagnava senza faticare. Mangiavo di più anch’io e quasi gli volevo bene, al benefattore di casa mia, che non mi parlava mai, ché il tempo non gli bastava per recuperare i sospiri persi nel suo letto ingombro di solitudine.
Man mano che gli incontri con gli impiegati del consolato brasiliano s’intensificavano, il signor commissario diventava irrequieto e possessivo e lo sentivo chiedere ‘rimanirimani’, e lo sentivo dire ‘passione, come posso lasciarti andare via…’. Ai dinieghi di Filo gli si arrochiva la voce e allora invece di chiedere supplicava, e poiché le suppliche non addolcivano l’ormai indomita Filomena, tentava la via delle minacce: s’infilava la maschera dell’uomo potente e diceva ‘vedrai che qualcosa m’invento; vedrai che tu non ti muovi da qua’. Un po’ lo capivo perfino io. Mia madre, invece, non sentiva ragioni.
Tramite il consolato, era entrata in contatto epistolare con il mittente della raccomandata che ci aveva rimescolato la vita: il suo signor fratellastro, figlio anche lui illegittimo seppur amato da vicino, del loro signor padre, a mia madre sconosciuto. Si chiamava Aguinaldo. Ma anche Braulio Calisto Dirceu Eliseu. Si faceva chiamare con quest’ultimo nome, che preferiva a tutti gli altri perché echeggiava il nome dei venti che – come seppi in seguito – spirano intorno a Todos os Santos e lo faceva sentire libero. Mi stupì, veramente, apprendere che il figlio illegittimo del mio nonno sconosciuto potesse avere tutti quei nomi e che gli fossero stati imposti - per via dei misteri del sangue che scorre - seguendo la logica di un ordine alfabetico che si fermava dove cominciava il nome di mia madre. Per arrivare al mio, di nome, erano state saltate a piè pari ben quattro lettere, probabilmente per un dramma di mancata successiva comunicazione misteriosa tra gli interessati. Avevo rischiato di chiamarmi Genoveva. ‘Meglio i dolori dell’Addolorata’, pensai quando venni a conoscenza di tal fatto esagerato.
Filomena invece, reagì come una che non intendeva essere da meno: chiese un elenco dei nomi femminili portoghesi e se ne affibbiò tanti quanti ne aveva Eliseu. Scelse: Guilhermina (per non essere da meno di Aguinaldo); Hélia (pensando che un nome corto ci stesse bene, trascurando il dettaglio che fosse più adatto a un maschio); Inàcia (le smuoveva qualcosa dentro); Judite (per soddisfare una vaga sete di vendetta che pure l’animava). Si arrabbiò, quando al consolato si rifiutarono di convalidarglieli. Io la sostenni, e per aggirare l’ostacolo, dipinsi per lei un certificato di nascita riveduto e corretto. Fu orgogliosa di me: ci consolavamo coi piccoli espedienti.
Scoprivo segrete armonie impensabili, nel cuore e nella volontà di Filo. Decise che non voleva partire troppo alla ventura: intendeva pretendere da Napoli quanto le spettava. Di ché, non sapevamo. Progettava un rientro nel luogo in cui da viva cosciente non era mai stata. Alla partenza, il signor commissario si dovette consolare con una ciocca di capelli che mia madre si tagliò, alla maniera antica, sotto agli occhi suoi. Nonostante i capelli di Filo stretti nella mano, a mo’ di tangibile ricordo, sembrava un miracolato al quale avessero svelato che il miracolo era stato uno scherzo. “Poi torno”, promise quella sfacciata di mia madre. Se abbia avuto il coraggio di crederle, non so, ma penso ne andasse della sopravvivenza del suo amor proprio. Rimasi col dubbio. Anche lui, magari.
Percorremmo a ritroso la via che toccava Napoli, quella che all'andata mia madre aveva fatto a occhi chiusi, nella pancia di mia nonna. Io non c'ero, a quel tempo. Fu per entrambe una sorpresa. Maggiore, per me. Se la fuga di mia nonna fu avventurosa, il nostro ‘rimpatrio’ non fu da meno. Comunque, arrivammo, decisamente inattese, in special modo io. Da Milano avevamo portato via le poche cose che potevano tornarci utili: un pettine, del sapone, pochi capi di biancheria, le scarpe, qualche vestito leggero meglio adatto al clima della città in cui pensavamo di stabilirci per breve tempo; più un’immagine della madonna di Pompei a cui mia nonna, pur nella sua cattiveria spersa, era devota. Il posto d’onore nella valigia fu riservato a un paio di sandaletti rossi che mia madre calzava quando si riposava. Troppo belli per consumarli sulla strada. Il resto rimase nella casa, a uso e consumo di altri affittuari poco abbienti. Non avevamo mai viaggiato, ma col bagaglio ci sapemmo fare: leggero, praticamente inconsistente.
Napoli ci accolse come fossimo regine tornate dall’esilio: era la festa di Piedigrotta. Non ci facemmo incantare e ci presentammo all’indirizzo cancellato sulla busta, arrabbiate e decise. Dei parenti neanche l’ombra, ma ci volle poco a risvegliare la curiosità dei vicini che fecero a gara per fornire ogni tipo di possibile informazione: perlopiù fantasiosa, agghindata e fuorviante. Insomma, finimmo al posto di polizia, dove fummo ascoltate soltanto grazie al benevolo intervento del nostro signor commissario da Milano. Disgrazia volle che, con un cognome come quello di mia nonna, aggiunto al nome del padre, che era più comune di un nome comunissimo, all’appuntato venne una crisi di malumore e affermò che per fare una ricerca tanto complicata ci sarebbe voluto un mese: vagheggiava, constatammo poi. Il signor commissario, tempestivamente interpellato disse che, volendo, potevamo soggiornare presso un lontano parente suo - persona a modo e bisognosa di cure, così ci potevamo pure spesare senza pagare -. Io dissi subito di sì. Lo dissi anche per Filo, che dalla furia non teneva riserva di parole cui attingere.
Furono tempi di arrampicate sugli specchi, ma anche di scavi. Sì, imparammo a cercare come si fa per i morti sotto le macerie, come si fa nelle città sepolte, per scovare fosse pure un cucchiaio, un osso, una brocca sbreccata che potesse svelare di quale acqua si dissetavano quelli che poi erano spariti: i parenti nostri. Inaspettatamente, arrivammo a percorrere i sentieri degli antenati, venuti dalla Spagna - ci svelarono poi – e perfino dall’India, forse, ai tempi dei tempi: eravamo praticamente zingare e avevamo rischiato di non saperlo mai. Saggiavo il gusto della diversità e mi scoprivo felice di ritrovarmi napoletana e gitana, e man mano che il tempo della ricerca passava, il mare del golfo si rimpiccoliva e la terra che ci stava di fronte mi tornava familiare.
All’inizio Filo, arrabbiata, strepitava, perlustrava i vicoli e io le andavo dietro. Pian piano smisi di essere la sua ombra e cominciai ad andarle intorno in giri sempre più larghi. Lei, accecata, non vedeva niente; io bevevo ogni cosa, mai sazia di capire. Ci addentravamo nei rioni. Lei continuava a cercare l’apparenza, io indagavo i misteri di Napoli e delle leggende di cui sentivo bisbigliare: tre nomi, tre donne, tre malaffari: una ingabbiata; una murata; una impiccata e decapitata.
Attraverso i racconti dei vecchi, fui spinta a Port’Alba e conobbi il nome di Antonio Alvarez de Toledo duca d’Alba, viceré, e di Maria ‘a rossa, e seppi di magherie e fatture e d’abbandoni e di spergiuri e di Palazzo Spinelli di Laurino, in via dei Tribunali - venni a conoscenza - , e di donna Lorenza la spietata e dell’orfana Bianca, murata, giovane e viva, per peccato di sguardi. E di Giuditta, assassina per passione, che portava un cognome come un marchio delle vacche: Guastamacchia. Ma nemmeno a Napoli la passione lava una colpa di coltello, e Giuditta fu appesa e decollata, per peccato di povertà e lussuria. Rabbrividivo. Mi consolavo delle disgrazie nostre e crescevo in fretta, sotto gli occhi di una Filo che non mi guardava e intanto ogni anno, il sangue di san Gennaro si scioglieva. Ma io pregavo una donna, a san Gregorio Armeno: santa Patrizia, che ogni volta miracolava allo stesso modo. Ma era donna, e l’amavo di più.
Aguinaldo Braulio Calisto Dirceu Eliseu scriveva, in portoghese, pregando che lo raggiungessimo, a formare un piccolo gruppo di famiglia, ‘ché uniti si cresce meglio’ diceva, specificando: ‘e si pena anche, meglio’. Noi leggevamo in italiano e i suoi messaggi non erano chiari, e nemmeno invitanti. A malapena riuscivamo a comprenderne il senso e quel poco, solo per via di una sapienza atavica che ci serpeggiava nel sangue. Le brevi risposte le compilavo io, ma Filo si impermaliva a firmare, ogni volta scegliendo uno dei suoi nomi portoghesi inventati e non so se Aguinaldo BCDE si smarrisse in quella confusione. Comunque non lo dava a intendere, confermando che eravamo una schiatta ricca di fantasia.
Bahia attraeva mia madre ma lei, caparbia, non si voleva presentare a mani vuote, davanti a un fratellastro che era stato ricco almeno dell’amore paterno. Fantasticava Bahia, la mia Filo, ma non si avvedeva che a modo suo se ne teneva lontana. Eppure, gli zingari erano sbarcati anche laggiù e attraverso i secoli continuavano a intessere un sentiero, come un tappeto, come un incantesimo, affinché arrivassimo a percorrerlo per riunirci a loro. Il viaggio, però, costava caro. E Filo era bella.
Dei fratelli zii che erano nati e vissuti in vico Impagliafiaschi, non si trovava l’ombra, eppure il mestiere non era morto. Il signor commissario ci teneva d’occhio e sotto le ali, e coltivando il sogno di poterci fermare, aveva fatto in modo che potessi iscrivermi a una scuola di arti e mestieri, in linea con i miei ascendenti più prossimi: seguivo corsi di tessitura e mi esercitavo a intricare fili di colori che richiamavano sempre quelli di gonne e corsetti gitani. Imparai l’arte del vero cucito, confezionando abiti per Filo e per me stessa. Poi, non solo.
Pian piano, nel quartiere dove vivevamo, nei pressi di Palazzo Sansevero, (del qual luogo nutrivo un terrore che mi premuravo di non partecipare a mia madre, che di ognidove – quasi volutamente – ignorava fatti e misfatti che, al contrario attraevano me, che di tutto mi affascinavo), si sparse la voce della mia appassionata abilità, e le donne giovani si presentavano alla porta a commissionare stoffe e vestiti semplici ma fantasiosi. Filo mi andava scoprendo. Aveva smesso di tormentarsi e a furia di osservarmi ammirata, chiese che le insegnassi la mia arte. Ben presto lavoravamo in due, costituendo una sorta di laboratorio che ci dava di che vivere in un modo divertente. Passavamo le giornate a inventare e a sera la stanchezza sembrava un peso d’altri.
Col calare del buio, nelle sere d’inverno, insieme ai punti di cucito, ricamavamo la storia del favoleggiato viaggio fino a Bahia che, più rimaneva lontana e più sembrava bella e grande e colorata e perfino ricca: come le donne amate, quelle che se non cadono nel tranello di credere che le si voglia toccare per quello che veramente sono, rimangono adorate a vita. Ci stregava, la Bahia inventata, e nelle parole nostre risuonava il peso del sogno della città delle trecentosessantacinque chiese e Todos os Santos ci sembrava un nome da paradiso in terra. Dei negri, della barbarie di rapimenti e schiavitù e del palo infisso nella piazzetta del Pelourinho, non volevamo sapere. Dello zucchero gustavamo inconsapevoli il sapore, ignorando la produzione insanguinata della varietà denominata di ‘canna’.
Cucendo, cantando come le cicale e centellinando come le formiche, andavamo riempiendo un ingenuo salvadanaio: ‘‘a casciaforte’ la chiamava Filo, per darsi delle arie. Nel cuore, sono ormai certa sapesse che era solo ‘na scatuliella ‘e cartone. Ma quella, sembrava bastare a entrambe e Filo si mostrava più contenta di me, in certi giorni, specie quando scappava via all’improvviso… ‘per prendere aria…’, diceva. Piena una, incidevo una fessura sul coperchio di un’altra. Più tardi seppi che lei ne riempiva altre tenendomelo nascosto. Pazienza ci vuole nella vita, e perseveranza. Se non l’avevo imparato io, non ci poteva essere speranza per nessuno. La lezione veniva anche dal signor commissario, che incollato sullo spirito portava un nome che in qualche modo lo legava a noi: Salvatore. Scriveva, telefonava, spasimava e insisteva a dire che avrebbe trovato il modo di scendere a trovarci. Non penso volesse tanto vedere come stessi crescendo io, quanto come rimanesse immobile la donna che gli aveva bucato le viscere e, perché no, il cuore. A modo e maniera sua, ci teneva sulle spalle. Ma Filomena pesava.
Mia madre era come un pesce fresco gettato nell’olio fumante: friggeva. Toccava a me tenere discorsi rabbonenti, a me che sempre più diventavo una figlia-madre-di-madre-scriteriata. Ma era giovane, Filo, anche se madre. Un pomeriggio perse tempo davanti allo specchio, come mai prima. Era dicembre con brezza di mare. Aveva comperato un cappottello nuovo, fanatico ma di poco prezzo, e questo la metteva in crisi poiché non riusciva a scegliere: “Quello nuovo mi tradisce, il vecchio m’imbruttisce”. Tirò giù uno scialle di quelli con cui le zingare s’arravogliano in qualunque stagione. “Lo sai” presi a battibeccare, “che sgarrando metti a rischio la protezione. E la possibilità di abitare in una casa che non ci costa soldi. A forza di scherzare tu, ci bruciamo in due”. Ma dentro di me l’ammiravo e facevo il tifo per i suoi spasimanti. Impastata col lievito dell’istinto dei bassi di questa città, senza rendermene conto già ragionavo come le donne che nei vicoli ci nascono e ci muoiono.
Per i turisti che pagano, Napoli s’impennacchia e sfoggia il Vesuvio e Posillipo e la chioma d’un antico pino e ogni sorta di fascinosa allucinazione. Per i napoletani che l’onore lo pagano, cova sotto l’ala mille infamità. Non mi rassegnavo a vedere facce non lavate e dita furtive che s’allungavano, strisciavano e carpivano e passavano di mano moneta e cose. Mi sentivo onesta, pulita, provavo l’impulso di denunciare. Ero incosciente, e vista con occhi esperienziati , cretina. Che ne sapevo io della vera miseria che da secoli, affamata di questi colori, non si stacca e perseguita le budella e deforma corpo e pensieri e spirito e si beve il sangue di quelli che per combatterla, ancora oggi non trovano altri modi che imparare e tramandare l’arte di arrangiarsi, quell’arte che ha reso questa gente, la mia, - arroganza, volerla definire, - famosa nel mondo! Perché il napoletano verace è ricco di una fantasia da fare invidia. Magari schiatta ammazzato ma non s’arrende. E si vede che eravamo veraci anche noi due, mia madre e io.
“Stasera faccio tardi. E forse non torno.” Bumbum spara, soddisfatta dell’immagine che lo specchio rimanda, - capelli storcigliati -, la Filo impazzita. Ho il fuoco nella gola. D’un colpo è ferita la carne. ‘E forse non torno’ produce in me un vuoto di parole. Lei s’inventa un’approvazione che a voce non concedo. Solo nel fremito che m’attraversa, si denuncia la necessità anche mia di sperimentare la passione. Me lo legge nelle mani che tremano, nelle labbra che si aprono come fiore di cappero: su un muro a secco. Fa un passo nella mia direzione – ha sparato da vicino - e mi fissa: “Non essere gelosa. Hai più tempo di me e ti stai facendo bella”. Poi si gira ed esce senza il gesto che volevo: una carezza, magari un accenno di complicità. Vado nell’angolo in cui sta l’armadio con lo specchio, mi guardo e ruoto, lenta, continuando a far girare gli occhi: non ci vedo granché. Apro lo sportello, affondo le mani nei panni e frugo perché so che ci nasconde le sigarette. Non ho mai fumato prima e appena sento il sapore del tabacco e del fumo m’intossico l’anima. E un po’ la vendo.
Non è una sigaretta normale, di quelle che fuma davanti a me. Attenta e intelligente e sveglia e con gli occhi d’aquila come pensavo d’essere, sotto il naso mi aveva giocata. Non la posso propriamente incolpare. A Napoli non puoi essere bella e sola e pensare di svicolare e non pagare pegno. ‘Magari un giorno tocca a me’, mi dico come a volerle fare compagnia. Mantiene la parola e per tutta la notte rimane a scaldare un letto che non è il suo. Rientra a sera del giorno successivo. Di certo non ha quasi dormito. “Ti denunciano gli occhi”, mormoro fingendo di non guardarla, aspra come mai prima, scombussolata e perplessa, stremata da un graffio di gelosia che rasenta l’invidia. Il segreto di Filo è come una caldarrosta poggiata nell’incavo della mano d’un bambino: scotta di più. Non mi sogno d’abbandonarmi a sconforto e paura. Decido di scoprire le carte così, dal primo momento, mentre con fare studiato e incuriosito si spoglia dei panni. Odora appena di sudore. “Il viscidume l’hai lavato prima di rivestirti” indovino nel silenzio che è piombato tra noi, “ché forse ti vergognavi d’esserti spampanata la notte intera”. Rimane fulminata. Ne approfitto. Apro l’anta dell’armadio e ripetendo il gesto della sera avanti scopro l’oggetto del suo mistero. Non avevo capito ancora bene.
“Accorta, ca’ si scìupano!” Come fossero femmine e vergini da preservare. “E guarda che non le pago. Me le guadagno”, - nemmeno fosse una discolpa -. “I soldi per l’America non li butto via. E capisce a’ mme! Di qua non se n’esce cucienno cucienno!” Il fuoco che ho dentro si gela e sprofondo con lei all’interno di una dimensione che non vorrei ci inghiottisse ma che, comprendo, rischia di diventare la nostra, nonostante quello che vorremmo essere: pulite e libere. “Lui mi piace, mi va a sangue, in più mi paga per un po’ di passamano - cose piccole… - . Mi vuole bene!” quasi si vanta. “E vorrei vedere” rispondo incalzandola, “sei bella, hai un sedere che innamora, sei anche talmente esagerata che non è difficile tirarti dentro a cose pericolose. Ma vuoi pazziare”?
Scalcio, ma so che alla bisogna le sarò a fianco. Per proteggerla, per non infilzare ogni speranza al palo d’una galera o, peggio, d’una croce. “Nonna malefica!” impreco, “dove cazzo sei”? Filo mi guarda a bocca aperta. Non mi riconosco nemmeno da sola. Per superare lo sconvolgimento, sprofondiamo nell’ordinarietà. Lei va in bagno e io comincio a preparare la cena. “Almeno raccontami di quello che combini e poi dimmi con che razza di pelo sul cuore hai potuto fingere con me, ingannarmi con la contentezza con cui mi stavi a fianco a cucire e mettere insieme pezze e fiocchi e bottoni e dirmi ‘ma quanto ci divertiamo ma come siamo fortunate!’. Sei una stronza”! Mi mordo la lingua ma dobbiamo constatare che in poche ore ho svoltato cento angoli. Magari non sono cresciuta ma di certo qualcosa si è rotto e io mi sento diversa. Cambiata nell’intimo, nella nicchia delle poche certezze che pensavo di poter nutrire. Offesa, ferita. Adulta per forza.
Per la prima volta da quando sono nata, non chiedo più soltanto alla mia nonna innominata di farsi viva ma come un’invasata cerco dentro di me il nome sconosciuto d’un padre da invocare. Crollata sulla sedia, sillabo: ‘Sal-va-to-re’. Filo, uscita dal bagno, mi viene a fianco e mi dà una tirata ai capelli. Lieve. Piano. Affettuosa. Come di una che voglia dire ‘ma brava, hai ragione, c’è quell’anima buona’! Le perdono ogni cosa, come a una creatura che non solo è bambina, ma anche scema. “Non ti far venire idee fasulle che se quello ti scopre scorre sangue. Non ti scordare che sarà pure commissario, ma sotto sotto tiene sempre radici che scottano” l’ammonisco, prendendomi il tempo di escogitare il modo di farlo intervenire senza risvegliare morti e farne altri. “Hai ragione. Sei saggia. Più di me.” Lo dice a tratti, quasi a masticare il concetto e digerirlo per farlo proprio. Poi, spingendo da parte il piatto già vuoto della cena che stiamo consumando, messasi comoda inizia a raccontare i particolari.
“Ricordi quando hai cominciato a staccarti dalle mie gonne e a cercare in giro, tu, da sola, per tutti i vicoli che ancora mi spaurano solo a pensarli! Spiavo per annusare odore di parenti maledetti, e intanto annusavo fumo e odore di un uomo che ci sa fare, dentro e fuori del letto.” Le esce detto così, come se invece che con me stia parlando con una puttanella. Finge arroganza per non ammettere che si vergogna. “Non ti scandalizzare, che oggi ti sei battezzata dentro al secchio di questa sporcizia che rende Napoli una città tanto brutale. Per uscirne presto si deve sudare e imbrogliare e… distribuire.” ‘Spacciare’ è parola del diavolo che vuole la morte altrui e lei, fino a lì non ci vuole vedere. “Ora che sai, se vuoi mi aiuti. Poi scappiamo.” Una parte di me quasi le crede, tanto me lo dice con fervore. Come una creatura. Come una bambina. Come una matta da legare.
“E non ti preoccupare, i clienti sono persone d’onore, gente che non la puoi sospettare. Perciò lavoro tranquilla anzi, proprio per questo, ormai, se vuoi mi puoi dare una mano. Lui ci paga doppio, e noi facciamo prima. Non sa che lo scopo mio è partire. Se lo scopre… quello mi ammazza.” ‘Rischiamo la pelle da nord a sud’ penso con un frammento d’incongrua, fanciullesca leggerezza, neanche fossimo eroine del film della vita d’altri. Lo dice senza enfasi, da vera napoletana che non s’interroga più nemmeno sul perché dei misfatti dei disgraziati. Poi, di colpo, il coraggio che mi ha sostenuta poco prima mi abbandona, ma non voglio darlo a vedere. “Ci penso”, rispondo con tono pacato, come stessi parlando del colore sbiadito di una tovaglia da poco prezzo. “Vai a riposare mamma, ché hai gli occhi di febbre.”
Il mattino seguente, dopo aver dormito poco e male, mi alzo con la mente in subbuglio. I pensieri saettano in ogni direzione ma sempre rimbalzano, tornando indietro senza suggerimenti o soluzioni. Rassettata la stanza mi siedo e prendo in mano il lavoro di cucito. Lo amo questo lavoro. E’ mio. L’ho inventato io, trasformando manufatti da sarta in piccoli capolavori intrecciati di sapienza gitana. Filo mi fa compagnia ma non s’impegna. Scoperta, si rilassa e un poco s’adagia nella sicurezza che da tempo le nasce dentro sapendo che le sono a fianco. Squilla il telefono. Ormai allertata, avrei voluto rispondere io, ma lei si alza di scatto. Lavorare sul filo del rasoio implica responsabilità e agilità. Gli ordini sono sempre attesi e la risposta non può essere un no, per alcuna ragione. ‘E se un giorno il motivo fossi io’? mi chiedo mentre una fitta di dolore, la sensazione di sentirmi nuda, defraudata e in pericolo, mi invade.
“Mi vesto e scendo.” ‘Signorsìpadrone’, denuncia un movimento di labbra che non riconosco come le dolci e succose e ardimentose labbra della figlia della mia nonna sprezzante dei pericoli. Ma Filomena ha i suoi motivi per mostrarsi condiscendente. Io lo so. La voce ordinante, no. Segno un punto. Apre l’armadio e senza esitazione sceglie un vestito che sembra un sacco: anonimo. Quando l’aveva acquistato mi ero chiesta il perché di un abito tanto diverso da quelli che amava indossare, ma lei ne aveva inventata una delle sue: “di che t’impicci!” aveva sbuffato, “mica posso sempre luccicare”! Infatti, chi spaccia si deve confondere coi muri. Lei esce, io fingo di non avere domande da porre. Invece, dentro sono tutta un rimescolio. Le pezze e i fili e gli aghi e il telaio mi roteano davanti agli occhi mentre spingo indietro la sedia e simile a un gatto rincorso da un cane rabbioso mi precipito ad aprire il cassetto-ripostiglio del comò, quello in cui Filo sistema le poche carte che le interessa conservare. Soltanto l’immagine della forbice da sarto mi rimane fissa negli occhi, le lame aperte, in offerta e supplica: ‘prendimiprendimi’. ‘Ma quando mai le forbici si sono messe a parlare’! penso di sfuggita, con le mani che già frugano tra la biancheria, alla ricerca dell’agendina in cui sono segnati quei pochi numeri di telefono che magari un giorno potremmo avere necessità di comporre. Chissà per quale motivo, è nascosta come fosse un pezzo d’oro, di quelli che non vorresti mai un ladro trovasse e trafugasse. ‘Eppure’, penso, ‘ci stanno segnati appena il numero del commissario e del fratello sconosciuto che forse non vedrà mai’. Ci trovo anche quello che risulta affibbiato al nome del poliziotto che, afferma ogni tanto Filo, - come a tenermi informata di presunti, eventuali futuri sviluppi, - ancora cerca i parenti che se pure li schifiamo, però li vorremmo almeno ritrovare.
‘Strano però, che non abbia mai telefonato.’ E’ uno di quei pensieri che attraversano la mente come fossero, che so, un disco volante. Rapidi e luminescenti. A differenza di un ufo, il mio disco rimane sospeso, immobile. Occupa il mio cielo. Ondeggia e luccica e invia segnali colorati. L’involucro però, è scuro. Mi avvicino al telefono e seguo l’intuito che è già divenuto un sospetto. Compongo il numero del poliziotto, sperando, mentre il cerchietto gira, che risponda l’ufficio di polizia. Uno, due, sei, dieci ‘drin’ – gli do una possibilità - . Silenzio. ‘Quante bugie hai infilzato sul tuo stupido, piccolo spiedo, madre mia?’ Sparisce il disco volante e compare il viso di Salvatore che, nel mio immaginario, sempre più spesso visualizzo con un cerchietto colorato sopra la testa. Quasi sempre dorato.
Lui sì che risponde, e mi va bene che sia un numero privato perché tra Salvatore e la mia pazza Filo c’è di che necessitare di riservatezza. Forse si aspettava una tegola, una volta o l’altra ma… di certo non la mazzata che gli sferro io. Parlo con frasi strette, concise, come stessi inginocchiata in un confessionale a svelare i peccati miei a un prete a cui in realtà non ho intenzione di raccontarmi. ‘Quante volte l’hai fatto’? avrebbe chiesto lui, da dietro la protezione della grata. ‘E dimmi, - confessa! - ti è piaciuto? Perché se così è, quello è peccato ancora più grave. E dimmi, anche da sola ti sei toccata, e come? Le tenevi le mutandine, e stavi in piedi o sdraiata, davanti allo specchio o sotto le lenzuola? E a lui, che gli hai fatto a lui? Con le mani o con la bocca o, segnamo la croce, in mezzo alle cosce? E la lingua, l’hai usata quella bella lingua tua calda e umida e rosa… E lui, che ti fa lui, con la lingua biforcuta sua! E dimmi, quando lo fai, di giorno o di sera, al buio o con la lampada accesa, per goderti meglio lo spettacolo, svergognata!? E tua madre che dice, non se ne accorge tua madre che vivi sprofondata nel peccato mortale?!’ Perché per un prete confessore quelli sarebbero stati i veri peccati mortali, non quelli che la morte la portano davvero.
La mente stravolta del commissario aureolato sembrava rimandare segnali infamanti e dannatori che invece di scaricare su Filo imbrattavano me, ché a lui doveva sembrare meno doloroso. Parlando dei misfatti di Filo, sono invasa dal riverbero della passione per l’amore da toccare, quello che sempre la incendia, e mentre le parole che mi escono dalla bocca vanno nel senso di cercare una via di salvezza per la nostra vita che ormai odora di sangue, le ginocchia mi mancano. Salvatore dice ‘non piangere’. Ma io non piango. Gemo di piacere. Senza vergogna. Perché dopotutto, così ho imparato da mia madre e dai film e dai racconti delle popolane che vengono a casa nostra. Sento che mia nonna è contraria a certi abbandoni, lei, che del corpo suo aveva fatto soltanto uno strumento di sopravvivenza. Ma che diritto ha, la mia nonna invisibile e di poco sollievo, di fare la faccia scura, se nemmeno una volta s’è fatta presente, nella bisogna? Sal-va-to-re ha il fiato corto, ma il cervello gli va veloce. Mi scongiura di tenermi salda, di non dare a vedere e, soprattutto, di non svelare che ci siamo parlati. “Questa è missione ufficiale. Parto.” “Finalmente…” gli sfugge in un ultimo mormorio che tracima in rantolo. Mi viene in mente la frase con cui un’altra Filomena chiudeva l’ultima scena di un film che porto nel cuore: “Dummi’… e a’qquant’è bell’a chiagnere…”.
Per un verso mi sento tranquilla, avendo potuto delegare, spartire le mie angosce con un’altra persona, l’unica in verità, in grado di farsene il dovuto carico. Ma il quadro della situazione rimane incendiato. Con l’aiuto d’una fantasia che si basa sulla conoscenza, fosse pure spicciola, di fatti avvenuti, non mi è difficile immaginare il percorso e le mosse di Filomena, dal momento in cui ha varcato la soglia di casa. Potrei perfino giurare di sapere quali vicoli ha imboccato, in quali androni si è rifugiata, nascosta alla vista di passanti inopportuni, a metà tra il fiato sospeso e la voglia di ridere, per la felicità infantile e scriteriata di credere che tutto filerà liscio, perché a lei, una bellezza afro-napoletana e magari mezza indiana, la fortuna ha il dovere di tenere bordone, come si trattasse, invece che d’un passaggio di droga a qualche disgraziato, dell’antico uso del levarsi d’una melodia o di un canto.
‘Di che colore è la tua fortuna oggi, madremiafigliamia?!‘ Infilo giaculatorie, invocazioni e snocciolo consunti grani dell’antico rosario della mia nonna disgraziata e consumo la maniglia della finestra che affaccia sulla strada, nella speranza sfrenata di vederla svoltare l’ultimo angolo, quello del buon riparo. ‘E quanto è lunga oggi, madremiainculoallabalenachetiportiinsalvo, la coda della tua cometa? E dove ti vengo a ripescare, prima che ti rovescino, sfregiata e senza vita, sbattuta a terra davanti al portone di questa casa sradicata, se arriva notte e non ti vedo?’ Ripiombo nel tormento di risposte che non verranno. Risposte a domande che non posso porre alla sola persona che veramente amo, il mio doppio, il mio uno, la mia vita generante e di me affamata: mia madre.
Implorare a vuoto è un dolore che brucia e fa bramare il balsamo di una fede. ‘Beati coloro che credono’, cantilenacantilena. Ma in chi posso credere io, di tanto superiore e potente? Al di là e al di sopra del signor commissario da Milano, non sono in grado di figurare. Prego che basti a tirarci fuori dalla palude. Palude sì, perché in certe storie si sprofonda come i cattivi nei film degli americani, quelli in cui i buoni restano coi piedi sulla terraferma mentre i segnati dal male nel cuore vannogiùvannogiù, e non c’è appiglio per la salvezza del corpo; quei film di cui si dice ‘m’è piaciuto, ha una morale’.
Smetto di tormentare la maniglia della finestra; vado a prendere il vocabolario e cerco. Morale: assieme di convenzioni e valori di un determinato gruppo sociale in un periodo storico (o semplicemente di un individuo). Si apre uno spiraglio nelle vie della mia coscienza. Dunque, anche la morale è una questione relativa. Dunque, ci sono casi e tempi in cui una persona se la può giostrare, la morale. Brava Filomena, allora, che senza sapere ha imboccato un sentiero redimibile agli occhi di Dio e degli uomini. Una meno navigata di me, una creatura che vivesse il normale peso degli anni che si porta dietro, si sentirebbe confusa, smarrita, senza un codice comportamentale univoco da seguire. Io no. Oh, io no. Quattro parole mi confermano, ora, che l’uomo ha il diritto di giudicare per sé, a seconda delle circostanze, dei luoghi e dei tempi in cui vive. Mi riconcilio con me stessa, con mia nonna e con Filomena. Rifletto anche, però, che posta di fronte all’estensibilità che rende relativo il metro di giudizio sul concetto di morale, un punto ho il diritto di stabilirlo, e lascio dunque fuori del calderone della benevolenza i parenti traditori e i napoletani senza cuore che riempivano le strade di Napoli tanti anni addietro. Sono indecisa sul poliziotto che ha inguaiato mia madre.
D’un tratto mi assale come una fame di dolore, sì, una bramosia all’interno della quale lasciarmi sprofondare, senza quel controllo sulle emozioni che nella mia pur breve vita ho dovuto imparare a esercitare. Voglio piangere, mi voglio guardare allo specchio mentre gli occhi si gonfiano e s’arrossano e la bocca si torce nel pretestuoso tentativo di piangere in sordina, come se veramente non volessi farmi sentire da qualcuno. Ma io ho bisogno della gente, ho necessità di un palcoscenico e di un pubblico che alla fine della rappresentazione non solo applauda di cuore, ma urli a gran voce ‘Bis! Brava!’. Entro nel bagno – mi accontento di uno specchio piccolo, ché il viso ci sta dentro alla perfezione… - e mi scompiglio i capelli. Luciferigni devono essere, a mostrare da fuori quello che mi divora dentro: la paura. E invece di piangere rimanendo dritta e vigile, mi piego in due e comincio a urlare, soffocando il suono tra le mani strette a coppa sulla bocca. Quel tanto di spazio da non togliermi il respiro. ‘Brutta brutta nonna cattiva che oltre che morta sei pure muta! Brutta brutta Filo che di me te ne freghi e con la scusa dell’America te ne vai in giro in cerca d’amore e guai! Io sono piccola, qualcuno mi aiuti!’.
Misericordia e domineiddio, squilla il telefono, che di norma potevi anche dimenticare che pagavamo il canone per sentirlo almeno suonare. Vivo il fatto come una grazia e mi segno la croce. Sal-va-to-re chiamava per confermare che avrebbe viaggiato con il treno della notte e per dire che aveva già preso contatti segretissimi con l’ambiente vicino alla camorra. ‘A me le comunica queste cose?’ ‘E certo’ penso. ‘E quando mai mi ha potuta considerare una ragazzina. Adulta sono, anche per lui. Una con cui poter parlare di cose omertose, pericolose, mortali’. In qualche modo gli sono grata. Mi riconosce, lui, il ruolo assegnatomi da mia nonna.
Prendo atto e torno al lavoro di cucito. Concentrarmi su una cosa che mi piace fare mi pacifica, mi accende una piccola luce dentro: è del colore della speranza che tutto sia ancora salvabile. Ogni poco alzo gli occhi verso l’orologio appeso al muro. I vetri della finestra sono chiusi, ma i ragazzini che si rincorrono urlano a gola piena e si fanno sentire. Non provo fastidio, bensì sollievo. C’è ancora qualcuno che può permettersi l’effimero lusso di giocare. Piegata sulla stoffa, la mano che si muove agile, cerco con uno sforzo supremo d’immaginare i tratti del viso della mia nonna sconosciuta. Penso che lei avrebbe trascinato Filo sul pavimento della casa, tirandola per i capelli, se fosse stata viva e mai avesse sospettato di quello che andava combinando.
Incongruamente, un risentimento m’accende. Nessuno la deve toccare a mia madre! Rifletto e accetto che deve essere giusto così: guai se ci feriscono nella carne e negli affetti. ‘Perché’ interrogo mentalmente chissà chi, ‘qualcuno potrebbe perdonare una madre o un figlio che non sapesse tirar fuori le unghie, a sentir sparlare del sangue suo, a vederlo maltrattare?’ D’un tratto comprendo: è per questo, anche, che esiste l’omertà. Forse. Perché in un sottobosco forzato a vivere di malaffare, e chi se la sente d’infilzare un poveretto, nu muert’e fàmme? A questo punto mi sento in confusione. Mia nonna era la madre, e non mi tornano i conti. Ma lei è morta, e la risposta che riesco a darmi è che i morti ragionano diversamente, tutto a modo loro.
Sono trascorse due ore da quando ho visto ‘il sacco’ imboccare l’uscita di casa. Un sudore freddo m’infastidisce la fronte. Mi disfo di aghi e tessuti ed esco. A fiuto, come un cane, seguo lo snodarsi dei vicoli, sperando di veder comparire la figura agile di mia madre, ma più vado avanti e più mi prende lo scoramento. Senza riflettere passo quasi correndo per il vicoletto di Gesù delle Monache e capisco che non sono uscita per rintracciare la mia Filo, bensì per andare a inginocchiarmi davanti alla mia santa protettrice, Patrizia, le cui spoglie si offrono alla vista dei devoti sotto la cera che le ricopre e le preserva. Sarà un conforto entrare ed essere consolata solo a vederla lì, come una mummia che una volta respirava e che da mummia sempre si fa ritrovare, quando la cerco.
Filo mi coglie di spalle, furtiva e slavata. Sulla via del ritorno, mi ha seguita all’interno della chiesa, più per eclissarsi che per dire una preghiera di ringraziamento per la vita salvata. A capo chino, inginocchiata al mio fianco per dovere di rappresentazione, tiene le labbra strette a significare che lei, in santi e madonne poco ci spera. Dal canto mio invoco la protezione della defunta Patrizia bella anche da mummia, e la vedo come fosse viva, con la mano che si tende sul capo di mia madre che, al contrario di me, non vede e non sente niente, nemmeno la mano miracolosa che accarezza l’aria che le sta intorno, come a tracciare un cerchio di magia a mantenerla così, scapigliata e libera e sana. Un gesto traverso e la mano si arresta e i capelli di Filo si macchiano di un rosso invadente e io soffoco un grido e so che non la vedrò crescere oltre i suoi limiti di madre-figlia.
Il mattino seguente il ritmo della mia vita si altera. “Oggi non posso, tocca a te”, annuncia laconica la voce di mia madre ancora sdraiata sul letto. Non sa che Salvatore da Milano è quasi in dirittura d’arrivo, sceso giù a sconvolgerle i piani ed io, presa alla sprovvista non so come tirarmi indietro. Cerco tempo. Mi lavo e prendo un abito appeso nell’armadio, rammaricandomi di non possederne uno altrettanto invisibile del suo ‘sacco’. Mi domando se debbo avvertirla. Esito a parlare ma intanto mi vesto. Filo mi osserva; la mia remissività quasi la insospettisce. Ma da un pezzo ha compreso che su di me può contare. Dunque, trova pace e si alza per darmi istruzioni. Ha la febbre e nello sguardo nasconde qualcosa. Filo ha paura. Il gioco le sta sfuggendo di mano; lo ha capito e con poche parole mi avverte del pericolo a cui è costretta a mandarmi incontro: “Gira in tondo e accorta che non ti spiano. C’è gente nuova che si vuole infilare. Io sono faccia nota e per un poco non mi devo mostrare. Ma vedrai, presto ce ne scappiamo”.
Io, una Filo così smorta non l’avevo vista mai e capivo che adesso il coraggio mi doveva bastare per due. Non intendevo seguire le istruzioni che lei mi impartiva; pensavo piuttosto di correre a uno dei commissariati, tutti fuorché quello del poliziotto che sapevamo noi, e sperare che qualcuno riuscisse a rintracciare il Salvatore che a noi veramente ci doveva salvare
Ho trovato la prima lettera del tuo nome
fra le pagine del libro che m'hai dato
ed ho cercato subito le altre
tessere di mosaico più prezioso
cinque lettere soltanto, scritte a penna,
per me che so distinguere i tesori
rubini, smeraldi e acquemarine
non valgono la tua calligrafia.
trabajador
Buio. Silenzio. Assenza di suoni, di glifi, di parole. Sento cuori in tumulto. Vedo quello di l2 che si rimescola come la pasta pane nell’impastatrice del famoso fornaio. Il tuo sta appoggiato su di un tavolo. Spasima e non riesce a difendersi. Il movimento risucchiante dell’altro tenta di trascinarlo nel proprio vortice di azione... è una lotta all’ultimo strappo. L’impastatrice vortica veloce e il cuore di pikkolo ce la mette tutta per non cadere dal tavolo. Diventa rosso rosso rosso, gli si formano tutte pieghe nello sforzo di rimanere incollato al ripiano. All’improvviso, da sotto vedo spuntare come zampine di geco. Fanno presa. E il cuore di pikkolo rimane saldo. L’impastatrice finisce col ritmare i giri su un andare più lento. I due muscoli salgono ciascuno sulla cima di una collina e da quelle cime si confrontano. Alla pari. Nel centro della piccola valle, con le ginocchia nude piegate sull’erba alta prega, Arianna dei Labirinti. Per la pace del cherubino dai contorni del viso così azzurri e teneri. Perché Arianna dei Labirinti, che sa spaziare oltre i limiti, è una nei cui meandri ci si può liberamente sperdere, senza tema di esserne intrappolati. Questo dava al cucciolo d’uomo la felicità di fantasticare al di là di ogni possibile confine. La figura inginocchiata prende il cucciolo fra le braccia e comincia a cullarlo dolcemente. Dalla sua gola scaturisce un suono così lieve... inudibile ad altri che a loro due. Sono le vibrazioni di un’antichissima nenia indiana, volta a penetrare nei cuori di ciascuno, perfino di quelli che, arroccati duramente sulla propria postazione non sanno che quei suoni stanno volteggiando comunque nell’aria tutt’intorno, anche per loro. L. Tutto intero. Maronna com’ero seria.
"... e fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del
cazzo?" gli domandò.
Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatrè anni sette mesi e
undici giorni, notti comprese.
"Per tutta la vita" disse.
8.04.2005
Prefazione di Umberto Veronesi.
Contributi di: Anna Segatti, Anna Zanardi e Elisa Biagini.
Baldini Castaldi Dalai editore
www.bcdeditore.it; e-mail: info@bcdeditore.it
In vendita nelle migliori librerie al prezzo di 12,00 Euro.
A trentanove anni andavo come un treno. Come una cavalla. Spingevo avanti baldanzosa le mie quattro puledre, badando non solo che arrivassero a sera nutrite e consolate, ma che imparassero a individuare il sentiero annusandolo da sole. Ero felice, a trentanove anni, eppure un giorno, a sfatare chissà quale leggenda malandrina, eccolo il mostro occulto che s’insinua senza dare nell’occhio, come un dubbio nella mente spensierata, sotto alla pelle mia.
A quaranta, sapevo che non c’è solo la gioventù dei compleanni contati, ma è dirompente quella del gusto per la vita: passato l’angelo sopra la testa mia, l’amen dell’addio non me l’aveva consacrato. La Madonna, lo so, aveva sospirato e una fitta di dolore che quasi mai si presenta in tempo ad avvertire che le cellule da qualche parte si sono messe a pazziare comm’ e cculure a’nnapule, guidò il passo mio.
“Non si preoccupi, il cancro vero non si annuncia col dolore”, affermava il chirurgo interpellato presso il consultorio locale. Rassicurata, me ne andai perfino in montagna, a godermi una vacanza sulla neve con marito e figlie e amici. Ma nello specchio mi osservavo, quasi temendo di vedere scritto a chiare lettere: “Fine, bella mia”. Al ritorno, a un successivo controllo presso un’altra struttura in cui facevo il monitoraggio delle mammelle, poiché a seguito del primo parto si era prodotto un ingrossamento abnorme della glandola mammaria, m’avevano assalita con l’urgenza d’intervenire, e sgridata per aver perso tempo. Ma io che ne sapevo? Tra la visita e il taglio il passo fu breve. Lancinante quel percorso, se così si può dire. Nemmeno il tempo di caderci dentro c’era stato.
“Vieni domani. Va bene così, accettiamo i risultati delle analisi che hai appena fatto”, aveva detto il medico che da anni mi faceva lo screening. Un taglio traverso nello sguardo avrebbe dovuto definitivamente allarmarmi, ma lui che mi voleva bene era stato veloce a nasconderlo. Non me lo volle dire che per loro quasi non c’era più nemmeno il tempo.
“Tumore fulminante” risultò all’analisi istologica. Divenni la mascotte dell’ospedale, la miracolata: “Come fai, come fai” chiedevano ai primi controlli, “a entrare con quel passo deciso e il sorriso negli occhi, quando qui è una processione di disperate”?
Il mattino successivo alla visita, borsa a tracolla e pochi indumenti piegati dentro la ventiquattr’ore, varcavo la soglia dell’ospedale: tanto mi sbrigo, farneticavo, nel tentativo di esorcizzare il tremore delle gambe e la rigidità della nuca che da sola già mi voleva avvertire che la mia era una finzione, tre giorni e me ne vado fuori da questa culla del dolore degli altri no no culla bella il dolore mio non ce lo lascio a prendere sonno fra le nenie tue tu sei un inganno e i veli tuoi sono sudari per i morti io viva sono e vivissima voglio restare vedrai che questa soddisfazione da me tu non la prendi. Lanciavo a vela sciolta il pensiero, liberandolo dal vincolo d’una punteggiatura che rischiava di creare inciampi. Pertugi per il dubbio.
Ma intanto i passi miei si facevano lenti. Ah, se fossi stata libera di correre all’indietro… Pure a faccia avanti, per non farmi scoprire che me ne andavo, mi sarei messa a fuggire, lasciando la culla nell’illusione che anch’io mi stessi dirigendo fra le sue lenzuola. Procedevo sola. Sola, perché l’amore mio, il marito mio, il padre delle figlie mie, si doveva affrettare per andare in azienda, un’azienda che dava lavoro e pane a cinquanta famiglie di operai, che in qualche modo gli hanno occupato la vita più di quanto non lo abbiamo fatto noi, le cinque donne della sua famiglia. Però, due di questi uomini vennero a donare il sangue loro, e io li rivedo adesso, mori e giovani, affacciati alla porta della grande stanza a sei letti: “Siamo venuti per il sangue. In bocca al lupo”. Li strinsi a me, quasi a consolarli d’un gesto così intimo. Non so se di sangue ebbi necessità, ma per il resto della mia vita, sarà come portarmi dentro anche gocce di quello loro.
Arrivai in sala operatoria nuda sotto il camice e femmina nel cuore, una giarrettiera rossa a incorniciare una coscia, scongiuro e protezione contro un rosso maligno. Dopo la prima medicazione, sola come mai prima, riconosciuta la strisciante tentazione di scivolare sulla china del pianto, l’avevo ricacciata indietro: ma sono io questa qua, tutta ferita e tutta un dolore che non so nemmeno se ce la faccio a posare lo sguardo sopra a tanto sfacelo? Mi ero data un pizzico forte sul braccio tanto, e chi lo poteva sentire un pizzico in mezzo a quell’oceano di lividi. Sono io. Non c’è illusione che mi può far volare, mi ero detta, sconsolata. In un silenzio che solo il dolore regala, amai la mano che aveva ricamato sul mio petto il fiore della morte beffata.
Ma all’improvviso c’era molto di più: pregavo in ginocchio il cuore, ché si facesse grande più del nodo che soffocava la gola. Mi fissavano gli occhi miei, come da bocca di vulcano, asciutti e forti, mentre una voglia imperiosa di combattere e fiorire ancora e ancora e ancora, mi provocava, sfacciata e fascinosa e irresistibile e io tornavo a luccicare di mille sorrisi e forse più di mille. Un’esagerazione!
E magari è stato per quella felicità incorrotta che intorno a me non si sono mai accorti veramente, del lavoro di cesello sul petto. Da allora, scrivo e dipingo e amo. E la vita sa di sale.
*****
La Presidente del Forum Italiano Europa Donna, Signora Anna Segatti, commossa, si è complimentata con Laura, alla quale ha voluto regalare una dedica.
Tante donne presenti in sala si sono avvicinate per ringraziarla del messaggio coraggioso che ha saputo trasmettere.
La signora Anna Boldo, addetto stampa, le ha scritto:
“Gentile Signora Onofri,
Le invio alcune foto fatte ieri a Milano.
Colgo l'occasione per rinnovarLe i miei più sentiti complimenti per il premio vinto. Un giusto riconscimento per il Suo racconto, che mi ha colpito e commosso profondamente.
Mi ha fatto molto piacere conoscerLa e La ringrazio per il messaggio di forza, speranza e positività che sta portando a moltissime donne, e anche a me”.
Amo il narrare visivo di questo grande, grande regista e m'incanto e sprofondo nella perfezione del
volto della donna prescelta; maggiormente mi sperdo nella sua imperturbabilità. Non un muscolo si
muove a denunciare emozione in questa figura tanto potente da potersi paragonare ad acciao forgiato
nel fuoco. Ma questa è solo una faccia ingannevole a uso e consumo di chi non afferra il senso
dell'assenza di turbamento: libertà.
E finché resta libera, è padrona.
Stupenda la realizzazione delle scene della Danza dell’Eco, impossibile da eseguirsi, a parer
d’inconsapevole spettatore. Scenografia sontuosa eppure non c’è ridondanza che disturbi.
Nella foresta di bambù, antichissimo simbolo di forza interiore e integrità nella cultura cinese, fendono
l'aria inarrestabili e invincibili, le lame dei pugnali. Non si scorgono le mani che li lanciano e la precisione
muove l'occhio costringendo a uno sgranare di pupille - la bocca si schiude in cerca di respiro che si
mozza.
Le immagini puntano soltanto in apparenza a sbalordire; è molto più profondo il senso di ciò che
s'intende convogliare attraverso la bellezza e la velocità dell'azione e la leggerezza animalesca di
assalitori e assaliti.
I colori della natura che partecipa dell’azione sono trabocchevoli e l’anima si espande nel loro fulgore;
scene che si ripetono quasi fosse un girare di scena in senso inverso – a significare, forse, il vano
andirivieni dell’uomo combattuto. - Sul finire, si gioca con l’inesistente dimensione del tempo in irreali
sequenze di stagioni che si susseguono lungo lo svolgersi di un’azione di sangue che di per sé non
giustifica quello che gli occhi vedono.
La storia d’amore è quasi marginale rispetto alla lotta di forze contrapposte e le figure maschili,
corrose da un amore che se appartiene all’uno sfugge all’altro, incapaci di sublimare, spezzano
l’equilibro dell’energia che tutto può. Dunque il caos.
Puntare al sottile, per comprendere il messaggio.
violitacuorevolante
Recensione del film La Mala Educaçion di Pedro Almodovar
Coinvolge e assorbe nel vortice di sentimenti ed emozioni
che già all’emergere dei primi colori e suoni vengono incontro
per aprirsi uno cento mille varchi nell’animo che subito è rapito.
Don Manolo conduce per mano lo spettatore fino a fargli
assaporare l’oscurità dei propri abissi e renderlo partecipe
di un’afflizione d’amore folle e snaturato,
ma profondo e drammaticamente reale.
Ignaçio, tabula rasa su cui incidere segni permanenti e nefasti,
insieme alle proprie carni di adulto mancato buca la coscienza
di chi lo osserva mentre per amore, anche lui,
soggiace e consente alla propria rovina.
Angel, nome provocatorio del fratello Caino,
in qualche modo si attaglia alla figura non del vendicatore
bensì del rivendicatore di diritti propri disattesi e
messi a margine da esigenze di vita apparente
dell’Abele che gli è toccato in vita di uccidere.
Enrique, sincero e appassionato eppur misurato e dignificato,
nel disfacimento di un rapporto che fu vitale e mai obliato,
la cui vita non consente drammi fuori dalle righe
nonostante la scoperta di una verità brutale.
Uomo d’arte, sa che lo spettacolo continua.
Si piange soltanto a tende tirate.
Nel calderone di banalità e di presunzione di fare cinema,
raramente con la "C" maiuscola, sempre si staglia forte e chiara
la voce di un Almodovàr strepitoso, la cui forza sta nella naturalezza
con cui riesce a rappresentare quello che comunemente viene reputato violenza: la Vita stessa.
Senza sbavature né compiacimenti, si eleva al disopra della facile pornografia
nella cui rete-tranello altri meno ispirati sarebbero caduti.
Sa rigare ogni centimetro di pellicola con tagliere appuntito,
eppure le sue gocce di sangue non sporcano.
Della violenza evoca la disperazione e la rende umana; condivisibile.
Ci si può guardare dentro con animo indagatore d’inquietitudini,
mettendo da parte ogni perbenismo.
Con i colori più intensi dipinge l’Uomo e demone e intatto e
a suo modo puro nel dolore che ne diluisce, se non lava, ogni macchia.
Una storia da caderci dentro.
Carnale e sontuosa e vera.
violakeassapora
Al margine di via del fosso di una verità ingegneristicamente
costruita, imbevuta di moralismo, di luoghi decisamente comuni nella
loro sbandierata analitica ricerca dello scomodo pensiero. Un inno alla
banalità deificata. Sentimentalismo sfranto e deteriore. Compiacimento a effetto per le masse “pecorificate”.
Cito, fra le altre sparate: “ruttare, pisciare” ecc.. Parole messe lì per smuovere lo strato gelatinoso delle anime rattrappite dei benpensanti, che dal profondo sentirebbero un’urgenza di sgranchirsi e leggendo tutte queste cose dette con volgarità troppo compiaciuta per essere genuina - e con cui tutti desidereremmo esprimerci, umani che siamo, in determinate occasioni, al fine di sentirci più leggieri - si sentono
finalmente autorizzati a fare lo stesso.
Al giorno d’oggi non i più, ma sicuramente tanti, magari non ammetterebbero di essere sotterraneamente attraversati da certi brividi di pulsioni oscure nemmeno sotto tortura, e saranno loro forse i più intrigati dal libro in questione.
Poiché l’uomo ancora troppo spesso necessita di un’ identificazione, di una piattaforma su cui poggiare quel tanto di coraggio che dorme
dentro ciascun individuo, si fa artatamente leva sullo stupore di
vedere impressi sulla carta stampata pensieri sotterranei. Si punta sul
bisogno delle masse di crescere al di là del numerico. Si sfrutta la
conoscenza di storie e dolori altrui pilotando il tutto in direzioni
perbeniste di stampo marcatamente cattolicista, fortemente irlandese.
Per questo utilizzo qui il termine sfruttare, che normalmente aborro, poiché l’intento non rispecchia una linea di pensiero tendente all’universale. Nega e in ogni caso soffoca, il vero respiro del pensiero e dell’anima. Tutto è bene quello che finisce nel codificato. L’amante doveva, come era giusto, morire, e il reprobo doveva subire la minaccia di una ventilata, terribile punizione del Signore che invece è così buono che gli lascia la figlia a patto che la cattiva scompaia - nel dolore e nella sofferenza, che è meglio - e il correo torni all’ovile anche se tanto aveva cominciato a fargli schifo. Cos’è, un’incitazione a "fàmose der male?” . Pretesa presa di
coscienza dei veri valori della vita? Quali sarebbero? L’ansia
particolare dei colleghi che si preoccupano di più e ancor di più
partecipano visto che la ragazzina moribonda non è soltanto una
sconosciuta che tanto chi l’ha mai vista ma questa sì che c’è di che
tornare in ospedale anche se il turno è finito perché non è un’aspirante moribonda qualunque?
Ricerca delle ombre del sé sotto i ponti tra le immondizie e nel compiacimento del degrado che gli riesce tanto bene di percepire visto che lui viene così dall’alto in confronto, e perciò la puzza la sente subito, eccome!? Anche questo cos’è, del tipo grasso è bello? Fingere e negare e darsi le martellate sui calli da soli?
Di realmente maturo e adulto in “Non ti muovere” nonho trovato traccia. Non è il vero incanto e per me, fino alle mani del
vasaio non ci arriva.
Premessa a piccola considerazione cinese:
Scrittrice irlandese, epperciò di lingua madre straniera. Pubblica il primo romanzo soltanto nel 1994. Quasi altro la biografia stringata che circola su internet, non disvela, a parte il mettere in evidenza che è la moglie dell’attore Sergio Castellitto (sic) e che è stata lei stessa attrice di teatro e forse lo è ancora, ma non si evince.
Nel libro non c’è nota su eventuale supporto di traduzione. Il linguaggio è così costruitissimo che perfino una persona di madre lingua molto abile sarebbe potuta scendere in dettagli di tale minuzia soltanto affondando a piene mani nelle riserve di una memoria genetica – non vanamente madre lingua, appunto, viene definito l’idioma nel quale inzuppiamo i primi biscottini del nostro linguaggio.
Grandemente mi stupisce che tanta assimilazione, paragonabile a un fenomeno osmotico, si sia potuta verificare. Segno che allora finalmente moglie e buoi dei paesi tuoi non è più valido come proverbio perché non veritiero. Si possono percorrere, impegnandosi ovviamente, le vie della comprensione profonda fra coniugi, almeno, di razze diverse.
Teatrali il respiro del linguaggio e la scansione e forse vista l’aria che avvolge la Mazzantini da anni, non poteva essere diversamente. Scontati, in realtà, l'ordito e trama del racconto, pur nella ricercatezza dell’effetto di voler portare a galla pulsioni e pensieri di un uomo che, tutto sommato, rimane uno stronzo, un moralista, una merda.
“Non ti muovere”: una villetta di cemento progettata al CAD.
Preferisco l'autenticità delle storie tirate sù con mattoni di paglia e argilla cotti al sole. Una costruzione mentale, questa, che per quanto raffinata e ricercata non mi commuove come un’elevazione.
Sto terminando la lettura di “Possessione”, un libro di Antonia Byatt, scrittrice inglese che regge l’urto dell’onda da circa quarant’anni. Una femminista. Contenuti dai toni eruditi, anche se nella massima parte i brani ‘pesanti’ sono citazioni da opere di personaggi, realmente vissuti, di cui ella narra; comunque il suo stile aderisce allo spessore degli stessi, e pur non essendo propriamente scorrevole, non costituisce un limite alla lettura.
L’erudizione traspare nello svolgersi a volte didascalico della storia, e potrebbe far nascere la tentazione di scorrere velocemente alcune - svariate - pagine. Ma non è così che si legge un libro. Per saggiare l’essenza del succo, il frutto va spremuto con tutta la buccia.
Antonia Byatt si esprime in maniera stringata - quasi pudica -, perfettamente in linea col tempo e i fatti di cui scrive: Inghilterra fine ‘800; arte e amore, nelle sue forme più dolorose e striscianti. Eppure ‘l’indecenza’ scivola, attraverso le maglie di un porgere vicino all’asettico, senza fronzoli. Ma è grazie a questa capacità sottile, che leggo e amo quanto sto leggendo.
In riferimento alla ritrosia di Ellen Ash, vedova del poeta Randolph, di fronte all’inquieta domanda se pubblicare o meno sue lettere segrete, la Byatt le fa dire: “Ricordo di essere stata profondamente colpita da quanto dice Harriet Martineau,” - considerata la prima dei moderni sociologi, - “nella sua autobiografia. Per lei, pubblicare lettere private era una sorta di tradimento – come se uno riferisse le conversazioni tra due amici davanti al camino, nelle sere d’inverno”.
Questa annotazione mi ha colpita, poiché sto lavorando io stessa alla stesura di un epistolario che è anche opera di carattere fortemente epico, linguisticamente fuori dai canoni, e istintivamente vorrei vedesse la luce ‘pubblica’, ma nel contempo m’interrogo.
Un epistolario è in genere opera postuma, ma nel mio caso, pur non potendo sapere, spero di sopravvivere alla sua ultimazione. M’interrogo, dunque, poiché epistolario non equivale a biografia, di cui si è decisamente padroni di disporre. Eppure esso si compone di due parti imprescindibili e rendere nota soltanto quella personalmente scritta, significherebbe operare una forma di castrazione. Non avrebbe senso. Rimane la via del compromesso, come in molte cose pubbliche: praticamente, mascherarsi. Farlo dietro a nomi fittizi, di luoghi e persone, escamotage che, pur ferendo in qualche modo l’animo di chi si mette in gioco, lascia alla controparte la via di fuga dell’anonimato, poiché quando un epistolario giunge all’epilogo, in vita degli scriventi, ciò sta a significare la fine di un dialogo. La fine di un amore. E dietro la fine di un amore si staglia l’effigie della maschera che uno dei due non è riuscito a togliersi.
Il dilemma m’inquieta, poiché reputo che la raccolta di queste oltre cinquemila lettere costituisca un’opera di dissezione dell’animo umano, nelle sue più segrete sfaccettature; dissezione appassionata e degna di essere scandagliata da altri. Perché luce e oscurità sono patrimonio di tutti. Ma è anche vero che nessuno è padrone del destino altrui. Dunque, verità a mezza luce. Verità che può trovare la forma del romanzo, e cosa fa di un insieme di parole un romanzo da godere? Ci sarebbe da sprofondare tra le crepe di un tale concetto. Mi metto il paracadute e provo il lancio.
Disponiamo di parole fredde, anonime, slegate, dure e crudeli; parole rotonde o spigolose e incisive come bulino. Nel corso della vita il linguaggio può arricchirsi e lo scrittore ha il dono di creare suoni lievi o roboanti, graffianti, in cui lo stridore del passaggio di un’anima attraverso il cerchio di fuoco delle passioni produce riverberi di colori universali, ed è là, in quel magico contatto che nasce l’opera. Uscire dal piccolo mondo per accedere all’infinito, al buio sepolto nel cuore degli uomini, alla viscerale maestosità d’immagini che Madre Natura sa ispirare. Il segreto è una mescolanza di capacità. Non basta rotolarsi nella culla della cultura. Saper rendere la sostanza di ciò che si è acquisito richiede un processo alchemico di assimilazione e trasmutazione. Ci sono storie costruite a tavolino in cui, a volte, perfino il tocco di più mani appare evidente, - seppur sapientemente limato a sembrare una voce unica, - e lettori che leggono e chiudono e mettono via a fine lettura. Possono confondere, le storie artefatte, attrarre in qualche modo, ma per me rimangono produzione commerciale, ‘roba da poco’. Fuori di questo recinto, fluttuano le voci di coloro che sanno vivere e ascoltare e parlare, attraverso la trasposizione scritta di pensieri, emozioni, colpi d’occhio, intuizioni. Scrivere equivale a entrare nell’occhio del ciclone della ‘conoscenza’. Un buon romanzo è un dolce di Natale offerto in qualsiasi giorno dell’anno; si mangia con gli occhi e si assapora nell’anima, poiché è ad essa che si rivolge. Ed ecco che per la gioia che sfogliarne le pagine produce a livello intimo, sappiamo di aver colto una mela d’oro. Tali gioielli torneranno a essere rimirati, sondati e gustati, perché a ogni passaggio lasceranno cogliere di sé, sfaccettature nuove e appaganti.
Di rado entro in libreria sapendo cosa acquisterò, poiché so che per istinto le mie mani arriveranno a sfogliare le pagine del libro, - più spesso dei libri, - che andrò a scegliere. Per me. Per quel momento. Per gli stati d’animo che mi abitano e che necessitano di essere riconosciuti. Questa è la via della ricerca che suggerisco: trovare se stessi nel cuore degli altri.
Poiché si avvicina un tempo che per tradizione è quello dei “buoni”, ebbene, voglio darmi una sbiancata anch’io. Sto forse ammettendo di essere perfida? Oh no, come amo definirmi in questi frangenti, cerco di essere obiettiva. Che a volte è peggio, per chi è oggetto dell’attenzione.
Ma stavolta parlo di rispetto. Tempo addietro, accettando l’invito di un rappresentante del settore Attività Culturali di un’organizzazione industriale di livello internazionale, sono andata alla presentazione dell’ultimo libro di Alberto Bevilacqua: “Lui che ti tradiva”.
Uno scrittore che ho amato, negli anni, e al cui stile espressivo mi sono sentita vicina, nei tempi in cui lo leggevo. L’avevo poi accantonato, per il gusto, la pungolante, vitale necessità direi, di sondare su più larga scala, il pensiero umano.
La sala sobriamente elegante, una voce recitante – femminile (Valentina Montanari) - un piccolo tavolo, il relatore quasi ininfluente accanto lui, Alberto, che sedeva stancamente, osservatore disincantato quasi, o forse, sopraffatto. Uno scrittore che ha intinto la penna nelle viscere, un aruspico del proprio destino, sfinito dalla gravosa impresa.
Non è per il lettore che la voce di Alberto bambino - quel bambino che continua a scalpitare dentro al corpo ormai usurato - si è calata, particolarmente in questo scritto, negli anfratti dell’animo suo, fino a sondare spazi graffianti, desiderati, amati e consapevolmente respinti, ma che sempre lo hanno attratto e inghiottito fino a non essere più, lui, l’uomo, in grado di crescere oltre la necessità di venire riconosciuto. Accettato per intero. Da una madre pervasiva e, più che mai, da un padre elusivo, figura contro la quale urterà negli anni dell’umiliazione, seguiti a quelli di roboanti imprese in cieli che, nell’animo dell’uomo, rimanevano tinti di un azzurro che andava oltre il nero della camicia che indossava. Un figlio, Alberto, che investendosi del ruolo di padre, ne riscatta la figura, per una necessità umana di mondarlo di colpe che avrebbero altrimenti continuato a perseguitare se stesso come la macchia indelebile di “figlio del peccato, creatura da uccidere”.
La narrazione diviene impasto di colori e sullo sfondo vedo delinearsi l’immagine di un dipinto che colpisce chi lo incontra, molto al di là degli occhi: ‘L’urlo’, del cui autore non serve definire l’identità, tanto la sua opera ha scosso gli animi, imprimendosi a lettere idelebili. E per me che, quasi a vezzo, a stento trattengo nella memoria elementi caduchi quali titoli e nomi, non dimenticare nemmeno per un istante quello del pittore de ‘L’urlo’, è decisamente indicativo.
Dunque, Alberto urla, per riconciliarsi col mondo, con una vita da vivere.
Della madre fa riemergere quei tratti che la rendono perpetuamente bella oltre ogni marchio d’infamia, oltre lo sfregio della follia e del tempo. Diviene, perfino nel nome che le viene mutato in uno più consono al suo temperamento, la Donna. L’elemento femminile che dall’inizio della creazione nutre e divora il figlio generato. E lui, aggrappato alla vita coi denti, ne plasma cuore e carne, in un caleidoscopio di immagini in cui egli stesso ha bisogno di riflettersi per non affondare.
Perfino nell’enormità delle membra della mostruosa donna della violenza subita insieme al compagno di giochi, ravviso una trasfigurazione della memoria: straripante e famelica; oscena nell’agguantare il sesso di un bambino troppo piccolo per poter soddisfare voglie al di là di un godere mentale; grottesca a rantolare per terra, stuprata con altrettanta violenza liberatoria per mezzo di un ramo strappato – vita spezzata – sotto gli occhi inebediti di cani saziati per la sua grassa mano di creatura infernale.
Nello scivolare della confessione al Mario - padre-bambino colto come nel sonno, in un tempo privo delle imprese che lo difendevano dalla crudezza della vita reale - non c’è accusa lampante per l’abbandono all’interno del quale la violenza trovò spazi per espandersi, ma ugualmente sembra vendetta, quel figlio fattosi padre che si sgrava del peso dell’antica aggressione.
In un modo che l’autore sembra quasi voler far scivolare a guisa di ricordo che affiora a madre morta, la donna mostruosa diventa un punto di scarico, il transfert di un immaginario di cui continua a essere protagonista lei, Lisa, l’essere dal quale il figlio bramava di essere invaso, per mancanza di mano paterna a guidarlo, e che lei stessa, donna-bambina-amante-male-amata-sposa-disattesa, disegnava nella propria mente con i contorni di un Lancillotto di favolesche imprese. Il figlio si fa padre nel corso di una vita da figlio-complice-amante-per-finta. E il gioco della seduzione tra due creature abbandonate diviene lo svicolamento del punire. Accettando e favorendo i sussuramenti insinuanti della madre-femmina, Alberto fanciullo si fa giudice che eroga una sentenza contro il peccato dell’assenza. La punizione diviene un ponte sospeso sui dirupi dell’inconfessabile.
Oggi, il talento della penna si fa unghia che scava. Si fa, infine, voce interiore e racconta, e nell’andare, il narratore si mette a nudo, con un profondo atto di coraggio. Con una forma di pacata crudeltà che diviene, infine, pietas.
Ho acquistato il libro spinta da un senso di gratitudine verso l’uomo che scopriva i sette veli di un universo segreto e fino allora segregato, per far dono, con dolore e passione, della propria esperienza, riflesso di umana condizione.
Ennesimo, novello Cristo sulla croce che gli è piombata addosso fin dal tempo in cui fu scagliato nel ventre della madre.
dicembre 2006
Tanto per dire, ho appena terminato di leggere Achille piè veloce di Stefano
Benni. Confesso spudoratamente di non aver mai indagato questo scrittore;
ora so di dover recuperare. L'immagine in copertina e l'avvio del romanzo mi
avevano tratta in inganno; pensavo di aver a che fare con un giovane ben
avviato e soltanto alla fine della lettura mi sono peritata di andare a
leggere la breve nota biografica. Cinquantenne, il romanziere, che in
effetti man mano che proseguivo tra le avvincenti righe mi si palesava nella
sua maturità solo apparentemente scanzonata. E' lo spirito della mente che
si esprime attraverso un linguaggio smascherato, senza fronzoli e
imbellettamenti. Non c'è trucco e non c'è inganno. Questo lo rende potente.
La finezza dell'introspezione si dispiega con l'uso di ali spalancate,
piumate di saggia ironia, istrionismo e amore e sesso ludico e disperato. I
personaggi siamo noi, con le nostre altezze e bassezze e quotidiane paure e
svicolamenti. Achille è il mostro snaturato da una madre natura che su di
lui ha infierito doppiamente, non avendolo privato della consapevolezza del
suo stato di mostro nelle fattezze, in un mondo di mostruosità occultate
dietro la normalità di corpi proporzionati spesso solo nell'involucro.
Achille è provvisto di tutto e di troppo: uno sgorbio di ragazzo con un
fratello che per difendersi è diventato crudele nel perseguire il benessere
materiale; di una madre fragile e spaventata; di un amico preso al laccio
che a lui si lega per istinto d'amore e che gli concede di sognare per mezzo
di squarci e occhiate all'interno della propria vita d'innamorato. Deforme,
e forte per via di una disillusione che non lascia buchi rosa nel suo animo,
Achille ha imparato a prendere per la gola i respiri del prossimo. Ulisse si
svuota i polmoni eppure attraverso quel tubo virtuale la circolazione d'aria
non si arresta. Senza cedere a inutili pianti, il romanzo termina com'era
giusto e Ulisse trae perfino vantaggio dall'esperienza di per sé dolorosa,
poiché il dolore non rimane fine a se stesso, ma l'impatto del vissuto gli
ritorna sotto altra forma. La storia è arricchita - che è ben diverso dal
tirata per allungare - dal racconto di piccole mirabilie e sotterfugi tesi a
ottenere che le cose giuste vadano per il verso giusto. Achille è quella
cosa inguardabile e insostenibile ai più, eppure rimane il vero vincitore
del dramma sdrammatizzato per mezzo dell'immediatezza della forma
espressiva. Lo spirito della mente si esprime attraverso un linguaggio
smascherato, senza fronzoli e imbellettamenti. Non c'è trucco e non c'è
inganno. Questo lo rende potente. La finezza dell'introspezione si dispiega
con l'uso di ali spalancate, piumate di saggia ironia, istrionismo e amore e
sesso ludico e disperato. I personaggi siamo noi, con le nostre altezze e
bassezze e quotidiane paure e svicolamenti. In questo tipo di scrittura, per
questo tipo di letteratura, le finalità sono perfettamente perseguite e
ottenute. Spicciole non come monetine, ma fruibili ai più.