Tuesday 6 September 2016
Una storia rovesciata
Una storia rovesciata. Ora, che ho appena masticato i primi due grossi biscotti della giornata, ricoperti di cioccolata fondente, - perché tanto non ingrasso, me lo posso permettere -, mi viene da ricordare…A dieci anni ero magra - sono nata, magra? - . Mia madre mi faceva tagliare i capelli corti, alla Giulio Cesare - e sembravo un maschietto, – ma lei mi aveva chiamata con un nome proprio femminile, sì o no? – e io li odiavo così corti. Di notte mi capitava di sognarli lunghi una quaresima, fin sotto il giro vita, anche più giù, a volte, e al risveglio piangevo. In compenso, già m’inventavo di fare miracoli: salivo su una sedia e dichiarando di essere S. Francesco, con uno stecco in mano elargivo fantomatici doni al mio primo amore dell’infanzia, quello assoluto, del peccato innocente. Lui, indifeso, s’inginocchiava davanti a me e spalancava le braccia come ad accogliere la manna. Poi ridevamo e ci facevamo dispetti e io gl’insegnavo a pattinare tirandomelo dietro mentre stava aggrappato all’estremità di una scopa. A pedalare la bicicletta senza il sostegno delle rotelle posteriori, gl’insegnavo. Perché ero più brava di lui. E questo difetto mi è rimasto. E gli amori si spaventano. Undicenne, al mare dovevo girare a torso nudo, l’aveva raccomandato il medico, perché spuntava solo una tettina, mentre l’altra sembrava non volerne sapere. La sinistra. Io mi vergognavo, e la sinistra forse già non mi piaceva, ma di certo era un problema mio perché nessuno in verità sembrava farci caso. A trentanove me l’hanno estirpata. La fatica di crescere l’aveva fatta per niente, e io avevo sofferto una vergogna che mi potevo risparmiare. Quanti fotogrammi di vita, tra allora e oggi? Proverò a contarli anzi, a raccontarli, perché man mano mi sembra di vedere un filo che s’allungava e nutriva e si nutriva di tutto quello che si andava intrecciando. Quando conobbi il ragazzo che poi divenne mio marito, – come sfuma lontana, oggi, quella figura energica e asciutta, che mi sembrava tanto forte –, mi misi mentalmente a fare il gioco del labirinto. Andavo a ritroso per ripescare i passi che mi avevano condotta fino a quel tratto di percorso. A una festicciola in casa di amici avevo conosciuto una ragazza che conosceva un ragazzo che poi provò a corteggiarmi ma non era il mio tipo, – quello, il mio presunto tipo, quando un giorno lontanissimo l’ho incontrato, dopo avermi stravolto altro che l’anima, si è nascosto tra le nebbie di un hinterland milanese praticamente irraggiungibile, un’Avalon nostrana. Lo sai che c’è, ma non la trovi -. Il mio non tipo invece, quello a portata di mano, dipingeva tori nelle arene. Mi regalò un suo dipinto. Oggi so che valore ha, un regalo di sé. Con lui andai a un’altra festa. Avevo già diciotto anni e mi vestii da adulta aspirante maliarda: abito in chiffon nero, stile impero, una rosa rossa appuntata sul seno e capelli raccolti sulla nuca. Uno schianto. Lì conobbi un ragazzo che poi m’invitò a sciare, una domenica mattina. Ma in montagna, con la neve, fa freddo, e per l’occasione mi presentai al portone, alle cinque del mattino – si andava in pullman di quei tempi –, che a vedermi non mi si potevano dare più di dodici anni. Nessun ragazzo mi avrebbe presa in considerazione, vedendomi col berretto di lana e i pantaloni di lana e i calzettoni di lana e gli scarponi chiodati che facevano pensare a un militare. Perfino le trecce mi ero fatta, striminzite, per via dei capelli che non crescevano mai. Comunque, ritenevo intelligente distinguere tra i vari tipi di circostanza. Erano in due, per l’occasione. E c’era anche mia sorella, che perfino per uscire di casa alle cinque di mattina si agghindava sullo chic. Un anno e mezzo meno di me, usciva nel buio che sembrava un’attrice sul set. L’altro era lui, quello energico e asciutto, che nell’occasione sussurrò all’orecchio dell’amico: ma non so’ mica Lionello Egidi! Nel tempo si è ricreduto e ci siamo sposati. E se invece si fosse fermato a quell’ingannevole apparenza? Chissà dove potevo finire. Se lo chiedeva sempre anche lui, quante imprese mirabolanti avrebbe potuto compiere. Io credo di no. Io sì, magari. Fanatica. Esagerata. Ho l’ascendente in Sagittario e il Sole in Ariete: Marte mi agita e Giove mi sospinge e mi protegge. Insieme alla madonnella mia che, a pensarci bene, con me s’è impegnata fin dall’inizio. Quel giorno feci un ruzzolone tale, che a una meno fortunata sarebbe costato la vita. Io, appena un grosso livido al centro del costato. Accesi il mio primo cero in chiesa alla Madonna. Fu gradita, l’offerta votiva, e lei, di gesso come sembrava, mi restò fedele. Non la invoco mai. La chiamo. Puntualmente arriva, mi si mette al fianco e senza parlare – parlo io, in napoletano –, mi accontenta. E’ venuto subito spontaneo, parlarle in quel dialetto pieno di calore, che anche quando è ‘stretto’ non è mai volgare. Le dico scètate, vien’accà, susati e scénne, ca mo’ basta ca dduòrme. Smaterializza! dico, quando guido e la fila di automobili non si muove. E ci posso giurare che dopo un po’ sarà come stare sulla Tivoli-L’Aquila di una decina d’anni fa. Deserta. Se non si sbriga, quasi la sgrido. Ma non si offende, ché la mia è una giocosa finzione. Un segno di confidenza. Arrivata ai quarant’anni avrei voluto che la vita si fosse cristallizzata proprio allora. Potevo dire di essere appena nata, sfuggita com’ero dalle grinfie di un aggressore che non puoi veramente fronteggiare. Devi solo essere protetta da una madonna come lo ero io che, invece di desolarmi m’innamoravo. Che sfacciata. Salvarsi come niente da un tumore fulminante alla mammella. La sinistra. Non era un’amore normale – patisco la normalità, quella che prima o poi diviene sinonimo di abitudine -. Io amavo un dio, uno che mi aveva ammaliata con i suoni che uscivano dalla cassa di risonanza di un pianoforte a coda nero, durante un concerto a Palazzo. Praticamente in delirio, scrissi una dedica sul programma. Firmai e gliela consegnai come si fossero invertiti i ruoli: io avevo suonato e lui aveva ascoltato. Diceva così: as your soul flows out through your fingers, may I touch your hands? Suona bene anche in italiano: poiché la tua anima scivola via attraverso le tue dita, posso stringerti le mani? Gli chiesi un autografo. Quelle stesse mani prodigiose, tremavano. Un anno dopo gli vidi lacrime scendere lungo il viso quando, dopo aver chiesto di vedere le mie figlie, le guardò mentre osservavano la vetrina di un negozio, senza che potessimo scambiare parola. Andò via piangendo e il giorno dopo mi disse: ieri ho capito di essermi davvero innamorato di te. Non aveva figli e stava per divorziare. Era un texano. Cosa potevo offrire io, a un uomo senza bagaglio? Il mio, al contrario, era troppo carico. Con mille spine conficcate in cuore, scivolai via. Come fossi stata Morgana. Anch’io via, tra le nebbie, come te, vita del mio spirito, che sei più della mia anima, e ancora e sempre mi scorre il tuo sangue nelle vene. Ma c’era un sangue reale e un cuore di carne che segretamente si consumava sotto gli occhi miei. Peccato… che peccato che più mortale non si può, lasciarsi inghiottire dalla fame di una maschera indossata a beneficio dell’altrui leggerezza. Il tipo energico e asciutto che da anni in un certo qual modo usciva ed entrava dalla stessa casa mia, in qualità di marito aggravato dalla preoccupazione non solo di lavorare a beneficio di una famiglia numerosa ma, sotto sotto spinto dal timore di non apparire mai grande abbastanza agli occhi di chi così pretendeva considerarlo, covava una grandezza maligna: quella di un muscolo che, dilatato si contorceva, fino a che arrivava il giorno in cui quasi si fermava. E poiché l’amore ha vie traverse e multiformi per dire che c’è, la sofferenza fu totale, condivisa e il pericolo affrontato. E corri e sbrigati che il tempo è ingannatore e quando vuole gioca scherzi fatali. E noi ci sbrigammo e approdammo sulla riva di un mare oltre confine. Un luogo in cui gli interventi sul cuore-muscolo erano già all’ordine del giorno. Coraggioso, spavaldo lui fino all’ultima sigaretta proibita, fumata di straforo, affacciato alla finestra, ché non si accorgessero di quella sfrontatezza. A mezzanotte, la notte prima dell’operazione a cuore aperto. Per essere all’altezza della propria leggenda inventata, chiese di essere dimesso dopo soli undici giorni – era quasi Natale -. Convalescente, dopo nemmeno due mesi si cimentava in imprese sul filo del rasoio. Che non si avvedessero, in particolar modo le figlie, che Big Jim apparteneva al passato delle corse sulle spalle, della coperta trascinata lungo il pavimento della casa, con quattro monelle con gli occhi sgranati aggrappate le une alle altre per non scivolare per quella via. Storie rovesciate le mie - come dire… vissute da piedi… -, perché quando la testa batte e non se ne ascolta il messaggio poi, alla fine, con chi ti vuoi lamentare? Con nessuno, appunto. Anche perché a volte i messaggi della testa sono invadenti, restrittivi, senza slancio. E chi non sopporta di vivere anche da piedi, e si sottomette pavidamente alla testa, magari si perde qualche pezzo di vita da rimpiangere, in un giorno fatale. Troppi spazi personali vuoti, dentro. Guardiana di quattro mura, donna amata nel modo sbagliato, ho scelto ancora negli anni, di andare scalza incontro a una storia tutto sommato come tante, sospesa al filo di un meccanismo che un tempo, nella sua limitata portata, andava a rilento, tra un ufficio postale e l’altro, specie laddove il telefono era uno strumento controllato da vicino, e quindi praticamente inutilizzabile. E non conta essere madri, per non potersi sentire anche figlie – figlie del tempo, di una modernità che travolge, e nella quale s’impigliano anche i capelli più capricciosi. I miei, poi, sono lisci e relativamente sottili… figuriamoci! A volte ci si lascia irretire dalla mancanza di convenevoli perché bastano un ciao, come ti chiami, che bel nome, di dove sei…ora scappo che devo lavorare, ci sentiamo domani. Alle tre. Alle tre, va bene. Ciao. Ma poi finisce che non ti alzeresti più dalla sedia e domani non arriva mai troppo presto. Invece, intorno c’è la vita che scorre. La mia non si fermava da un pezzo. Ero sempre lì a fare giochi a incastro tra tante cose da far quadrare entro le ventiquattro ore che non sono mai abbastanza… la fatica dell’amore di notte da inscenare, una stanza da riordinare, l’inquietante cena da preparare che anno dopo anno era diventata un incubo che sembrava mangiarsi il tempo che rimaneva a disposizione… l’orlo di un pantalone da stirare al volo che, mamma dammi una mano che stasera mi servono, sì sì, quelli neri, quelli che per errore avevo infilato nell’angolo in basso dell’armadio, quello zeppo di cose accatastate, inverno estate e primavera, tutte lì a spartirsi lo stesso spazio – che volete, siamo troppi in questa casa e non ci possono stare solo armadi, ci sono anche i libri, le stoviglie e le chincaglierie da sistemare, ci siamo noi che ci dobbiamo poter muovere, va bene te li stiro, tu studia che tanto io, il tempo di stare sui libri di scuola l’ho consumato. Eppoi, sono contenta che stasera esci ed è buon segno se hai cercato i pantaloni, proprio quelli che ti stanno a pennello. Magari t’innamori. Per via del sentiero su cui mi stavo inerpicando, mi sembrava che tutti dovessero lasciarsi trasportare dalle emozioni. Eppure non c’era neanche la spinta della primavera. Era gennaio. Ma forse era un inverno tepido, con certe giornate che sembrano davvero un regalo, una mela appesa all’albero del serpente. A forza di scrivere ciao come stai, raccontami di te, sì poi ti mando una foto… sì sì, quella di spalle, appollaiata su uno scoglio a mare, che lì si vedono solo le spalle, fosse che di faccia non dovessi risultare fotogenica, non sia mai…, mi ritrovavo innamorata di uno che nemmeno c’era. E’ stata una corsa a ostacoli, uno show ad Ascott, una discesa in picchiata contro un ponte senz’acqua d’attraversare. E’ stato un gioco di seduzione sottile e perversa, una possessione carnale attraverso cui l’anima si giocava il respiro. Ho creduto di vivere un pezzo di vita tutta mia, senza voler vedere che ero diventata il foglio bianco su cui uno spirito inquieto incideva disegni col coltello piccolo e affilato di un cacciatore sprovveduto e perciò crudele. Da madre esemplare, moglie che resta al suo posto come un capitano sulla tolda, - non importa l’entità della tempesta da affrontare -, scoperta e denudata la follia d’amore, ero chiamata puttana da una donna che non voleva analizzare i propri confini, che pur di interrogarsi per capire dove, in che punto, quando, s’era aperto il varco che mi aveva permesso di entrare, trovava più facile inveire. Credevo fosse amore. Vaneggiavo di un cavaliere senza macchia e senza paura. Mi chiamava dea incoronata, da un romanzo la cui lettura avevamo condiviso. Quando mi urtò col silenzio e la fuga, quella stessa corona diventò cerchio di spine conficcato a farmi sanguinare. Poi vidi un Cristo deposto, nella cappella di una chiesa di campagna, e sentii che se lui aveva potuto sopportare, chi ero io per piangere… Oggi sono vedova due volte. Di uno sposo ho seguito il rito funebre, dell’altro ho perso la via per sospirare. Eppure non sono morta, e se vedo un aquilone rimango testa all’insù, neanche ci fosse ancora mio padre a tenermi per mano. E ancora altro guardare all’insù nel cielo, mi toccava sperimentare: in una mattinata di sole regalato, contro un azzurro tanto illimitato e puro da sembrare appeso e insopportabile, ho letteralmente visto mia madre andare in fumo, e ho pensato che il mio amato Chagall quello dipingesse, nei suoi quadri visionari, restituendo volto, colori e fattezze alle anime affumicate e volteggianti dei deportati ebrei sterminati nelle bocche dei forni.