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Dallo sfogliare un Taschen Buch, riflessioni su


Citazione da: Federico Botero e la forma:

“Quando si guarda un quadro, importante è capire dove nasce il piacere. Per me è la voglia di vivere che scaturisce dalla fisicità delle forme. Perciò, cerco di creare la fisicità attraverso le forme.”


Intuisco un di più. Un senso di intima percezione della serenità interiore traspare dall’apparente fissità delle immagini, fissità negata poi dalla magnanima ridondanza plastica e cromaticamente appassionata delle figure, quasi rassegnatamente carnali, su sfondi che non attentano all’essenza del giardino segreto dei personaggi.

Repellenti nei tratti, enormi e mostruose nelle forme, - nella comune accezione del bello -, come il Buddha, le sue creature si ristanno, quiete e morbide e osservatrici, e seppur impigliate nel moto perenne delle sfere celesti, si stagliano, regalmente distaccate da una realtà che al loro sentire rimane apparente.

Eppure, la corrente vitale che l’artista trasfonde nelle sue opere, scorre con la potenza di un eros travolgente; le scuote dentro, ed esse rispondono, come una terra che trema e ogni cosa sommuove.

Splendidi, i nudi di donna carichi di erotismo primordiale, dall’incarnato rosastro della pudicizia manifesta attraverso gesti lievi e coperture minime, velate appena, più a segnare una via, una suggestione del piacere, che a occultare arcani femminili.

Il maschio, l’uomo, un’apparizione, a volte marginale, altre di necessario complemento all’esaltazione della femmina carnosa e carnale. In Botero, la femmina non è mai l’Eva peccatrice. Ella tenta con l’innocenza del suo consapevole esistere.

Struggenti, le piccole macule di colore acceso che, con tocchi apparentemente inconseguenti spuntano sulla pelle e tra le chiome maliarde delle sue donne burrose. A mirarle, si spalanca come una voragine di fame atavica, la stessa fame che assicura al pianeta la continuazione della specie.

Piccole mani e piedi incongruenti, mammelle minime e fuori posto che nulla rubano all’abbondanza già piena del corpo intero. L’artista non è, egli stesso, soggetto passivo e l’uomo che è in lui e che si manifesta nelle sue pitture, non anela a succhiare il latte materno da un seno che gli fu negato.

Riconosce la necessità del distacco e immergendosi nella pastosità delle forme che lui stesso partorisce, si nasconde al loro interno, ne trae piacere e consolazione e istiga il maschio a divenire intero, ricongiungendosi alla figura archetipa pre-esistente la Caduta dall’Eden.

Con visionarietà e orgoglio restituisce al mondo, in un impeto di femmineo desiderio di contribuire alla creazione della materia corporea, le due mezze mele, ricomposte in lui attraverso la passione per il piacere che dà vita, espressione indispensabile e imprescindibile per il raggiungimento di un equilibrio tra gli elementi che costituiscono la sostanza dell’universo intero.

Laura Onofri

3 marzo 2011


Attuali e infami

Un caso giudiziario

L’uomo sbagliato: Daniele Baroni.

Una storia vera
Un film per la Rai

Che ci vuoi aggiungere
alla disperazione di
un innocente privato malamente
del sapore della libertà di sbagliare passi
oltre sbarre di prigione
che non gli toccava di soffrire?

Di niente la puoi infiorare
una storia così,
salvo che per una volta
i buoni vincono e i cattivi pagano.

E lei l’ha a s p e t t a t o
Sei anni di speranze inventate
che d’un tratto hanno trovato la via
per diventare realtà che restituisce alla vita dentro se stessi
Alla vita fuori
E lei l’ha aspettato
Perché l’amore è kosì

Tocco questa verità con mano

e l’adulta consapevole che mi abita

p i a n g e

Piange come fanno i bambini indifesi


violitaElpisDalFondoDelVasoDiPandora

Domanda impertinente ma sensata

Esiste? Non esiste?

La Cosa Giusta

è quella farsa

già

messa in atto da

Pilato.

Per lavarsene le mani.

La Cosa Giusta

è una nuda

astrazione crudele

e chi la inghiotte

si sazia di sé.

Unicamente.


violitasalomonica

Besame mucho

Mano accarezza
Lieve il piede
Come fosse bocca
Di sposo
E lo inghirlanda
Per la festa
A venire

violasogno

Dopo lo tsu-nami del 2004

Custodire per non morire. After Tsunami

a mia nipote Emma, infante


La Terra inquieta

si agita

e le acque terribili

divorano.

Violita,

custode pacata,

culla dal fianco una speranza.

Piccola.

Vitale,

f o r s e

Immensa

violitasilenziosa

Duo pensiero a riempire spazi vuoti

è bellissimo leggere:

“…noi non ci perderemo, Alchemist ∞ Viola forever, una viola che ti sta sempre accanto, ti sta accanto come sai, e attento a non farti accorgere da altri che poggiata contro la schiena, il fiato sul collo e le labbra sulla tua amata pelle, c'è questo fiore che ti ripara e ti cede il suo profumo…”

e ti ringrazio per queste parole dolcissime che sono davvero un grosso aiuto, a un lavoratore per tirare avanti. Sapermi ricordo indelebile, come tu lo sei per me, mi regala davvero tanta forza interiore...

Così è se vi pare...


Ecco: per mille e uno motivi - tantissimi, insondabilissimi nel loro insieme - si viene a creare la rocambolesca situazione del triangolo, a cui in realtà uno dei lati risulta corroso e smangiucchiato. Magari due lati. Praticamente tre.

Riflessione: se i lati non sono smangiucchiati il triangolo non si forma manco a schiattare, nemmeno per un minuto. Figuriamoci due. Infatti, qui abbiamo un quadrato.

Ciack:

m’impadronisco al volo della parte dell'altra - come dire, più dinamica -, il cui legittimo fa una vita marziana.
La come dire, “canonica”, è insediata su un trono che vuoi o non vuoi, è il suo e dunque, sen rista’ assisa su certi allori per via di un'antica forma di accordo.
Chiude la figura geometrica 'u fitusu', che si inventa di essere Pegaso. Alla fine scoprirà di essere Icaro. O forse era davvero Pegaso. La faccenda rimane sospesa tra le parentesi delle seguenti parole:

da 'L'amore ai tempi del colera', di Gabriel Garcia Marquez

"... e fino a quando crede che possiamo continuare con questo andirivieni del
cazzo?" gli domandò.
Florentino Ariza aveva la risposta pronta da cinquantatrè anni sette mesi e
undici giorni, notti comprese.
"per tutta la vita" disse.

8.04.2005

Frammento

Oltre ad aver arricchito il mio guardaroba personale, negli anni, ho fatto sì che la mia fantasia commissionasse per te abiti che ad aprire gli armadi, li vedi... sono più ricchi e sontuosi di quelli della nostra Isabella Marchesana. Ho spronato e seguito un numero insostenibile di maghe dell'ago e del filo, sarte, creatrici, ricamatrici, filatrici e cercatrici di perle e rubini e diamanti e zaffiri e smeraldi. Capisco... tutta quella sontuosità ti è piombata addosso come un moderno bulldozer. Ma io te li ho regalati e te li lascio in magnanima eredità... peggio per te se pesano. Le mie intenzioni erano splendide.

Ripescaggio, ovvero... come recuperammo tra sorelle...



Metro Goldwin Myer presenta (dalla storia della vendita di apt materno, cui la sottoscritta si dedicò, contro occultissima volontà sororale)

Re-incontro dopo tempi duri. Due sorelle e altri. Ore 16.30, 14 marzo 2011. Zona Cipro. Roma

Da indagare con mente quantica ovvero, adusa a fare salti mortali



La signorina Serbelloniviendalmare (sottoscritta) attendeva, allo sbocco di salitina 'nu poco squallida di uscita automezzucci - aho, manco 'na Ferrari, manco 'na Porsche aggio mai visto spunta' da chilla salitella!-, attendeva, dicevo, ignara e sfranta da notte totalmente insonne, la vaga riprendritrice di inaccettabile assegno bancario di offerta scatenatrice di furibonda cacciata della sottoscritta dall'eden familiare: assegno accettato a proposta per acquisto abitazione materna; ella, l'assegna-tora, come gemella di Meg Ryan: uguale sputata! - allorquando... vede scivolare silenziosa e lenta e fantasmica sagoma, inconfondibile e per il colore e per l'assenza di velocità che sempre ne caratterizza l'andare, di una automobile vecchio stile, squillante color giallouovosodo, ma sodato come fosse fresco.
La sagoma si defila e la Serbelloniviendalmare sente che sta per compiersi uno sprazzo di destino.
Infatti, dopo breve, scorge in avvicinamento l'inquietante Fantozza (sorella irosa e irata della Serbelloni etc etc) stretta e praticamente sostenuta nell'incedere, tra due figure incongruenti (pseudosedicenti interessati ad acquisto). Che vorrà Fantozza, mi spia dunque la Fantozza, tentando di mimetizzarsi tra due colonne - una quasi a nasconderla con la sua imponente figura?
Oppure, visto che piove mi inviterà a fare una passeggiata insolita e demenziale sul suo pattino a due posti regolamentari più due aggiunti, ma che comunque se nun li paghi bene te butta de sotto! Pattìno fatto a mano con rotelle incorporate, che lo rendono idoneo anche per navigazione su marciapiedi, perché la Fantozza è una che sa il fatto suo!
Nossignori, la Fantozza, nell'incrociare lo sguardo attonito della signorina Serbelloniviendalmare, ondeggia e tenta di fissare il focus del suo bulbo oculare sulla figura che spunta improvvisa alla sua vista (alias Serbell...) fuoriuscendo dall'interno di un'auto che, all'improvviso, riconosce familiare. Quasi scivola lei, stordita e attonita, miracolosamente sostenuta dalle provvide colonne dei sedicenti possibili acquirenti.
L'aria si immobilizza, ma è solo questione di una frazione di secondo... La Serbelloniviendalmare si slancia, va incontro, scosta la tenda capillifera che stranamente si è come depositata sul capo della Fantozza, quasi a volerne determinare una totale mimetizzazione e la saluta affettuosamente. Insomma, Meg Ryan nel frattempo arriva, straccia improvvido assegno e poi sen va. Il trio Fantozza-colonne si avvia e Serbelloni , assegno stracciato, lo raggiunge. La conversazione riprende come se in Giappone non ci fosse stato nemmeno lo tsu-nami. Le colonne sono tornate nello Stretto di Gibilterra e di acquistare il bene hanno solo finto. Comunque, la via è aperta al miglior offerente che di certo, presto arriverà. Fantozza e Serbelloni etc etc celebrano la ripristinata parola scambiata, con puntata in trattoria.
Fantozza, confortata da un succulento piatto di spaghetti allo scoglio, mezza porzione di frittarello da dddio, e macedonia imperiale, trasognata e trasecolata, sulla via del ritorno ha sussurrato: ma non ci vuole venire lei, signorina Serbelloniviendalmare, (interprete dei suoi sogni di gloria assistenzial-infermieristica), a vivere proprio qua, dinanzi a casa mia, a portata di pattìno, se non proprio di mano... oppure a farci 'o bedde end brecfast? La Serbelloni sostiene e indirizza il volante dell'auto che le sta riconducendo fino sotto la casa della Fantozza. Lascia che il capo si volti lentamente e posa un rapido sguardo sul volto dell'inesauribile soggetto che ancora tenta di marcarla stretta: no cara, carissima Fantozza, non sarebbe la scelta giusta e poi io tengo quattro tesori da sistemare e mica li posso tenere a mollo per troppi anni che i tesori la luce, devono godere, quella tanta che se ne può convogliare. E chi si accontenta gode. A ciascuno la sua. E quella dimora che fu materna non mi appartiene nel sentire, ma sappia che l'aspetterò per farle gustare ospitalità e panorama nel luogo che ho scelto di eleggere a mia futura, prossima, spero, abitazione. Lei sa bene, Fantozza che ogni mano necessita del suo guanto. E guardi, remi. Remi con la sua fantastica barchetta a rotelle, che i giretti del palazzo ce li faremo anche in tempi di siccità. Perché le sue rotelle sono state una grande invenzione! Lei è geniale, Fantozza. Ma io rimango zitella. Libera di esprimere l'affetto e la considerazione per come posso e so. Che è l'unico modo per amare gratis.
Lei resta un mito Fantozza. Si tolga quella parrucca rossa tutta ricci che a vederla così, spaventa. Sembra tutto mia sorella:=)! Tifate, tifate. Continuate a tifare che questo è sempre meglio de La Corazzata Potemkin!!!
kisskiss

Ahi que dolor...

Ieri ho sentito un crepitio sotto ai tacchi. Eri tu? E’ stato come celebrare delle esequie. Per noi. Ahi que dolor, mi querido amor…

Sempre ritornano

Sempre ritornano - modificati, per fortuna - anniversari e anni che fanno parte del colore della nostra pelle, ormai...

Ma la pelle cambia, serpenti che siamo... e il lago conquista un fondo insondabile fino a cui nemmeno il pensiero vuole più arrivare... e il miracolo bussa, per manifestarsi...

Tornare indietro e saperti amare meglio...

Oggi tua figlia..

Armata di speranza,
mal corazzata
contro un dolore
annoso,
ha preso carta e penna
e s’è illusa di contare.

- Chiudi la porta,
rispetta chi ha freddo -
spicca all’ingresso di casa.

- Tieni pulita la cucina,
rispetta gli altri. -

- Bevi solo acqua,
rispetta te stesso -

ha incollato sullo sportello del frigo.

Poi è uscita,
per non vedere
che era inutile,
per non gridare

- Basta! -

violitasenzavoce
PS:
3 Settembre 2016
Da tempo so - sappiamo - che non era nelle tue forze seguire le disperate indicazioni, nemmeno quelle che ti venivano dalla disperazione del nostro amore

Presentazione libro "Latte di Serpe" seconda edizione 2009

Latte di serpe di Laura Onofri
Delos Books, collana Odissea Atlantide, pagg. 108, euro 10,00

Una nuova voce femminile si affaccia sul panorama italiano con un romanzo denso di erotismo, di sofferenza, di forza vitale. Il bildungsroman di una donna che “ricostruisce” da sola la propria educazione sentimentale.
La formazione di una giovane donna del sud, passata attraverso esperienze profonde, di quelle che segnano e che possono distruggere, ma che, se superate, si trasformano in un’eccezionale molla per la costruzione di una personalità.
È con un romanzo di questo tipo che Laura Onofri si affaccia sulla scena italiana. Latte di serpe, in uscita per i tipi di Delos Books non è un’opera che passa inosservata, perché ha in sé una molteplicità di elementi: l’erotismo, certamente. Quello forte, vissuto, appassionato e reale che solo le donne conoscono. Ma anche la capacità di accogliere tutto ciò in un percorso, rendendolo vero, espressivo, funzionale a una narrazione ricca e articolata.

Una storia italiana
Annunziata, anzi Nunzia — come la chiamano in famiglia – è la protagonista di Latte di serpe. La sua è una storia che può sembrare eccessiva, ma che in realtà è assai più comune di quanto si sospetti e di quanto, ancora oggi, si voglia indagare. Giovane della gioventù repressa di una ragazza del sud, cresciuta in una famiglia dove tutti sembrano occupare il posto che compete loro e dove invece ciascuno indossa una maschera. E lei, che di maschere non ne vorrebbe, si ritrova a dover fingere e a tacere. Perché quello che le capita è l’essere oggetto delle attenzioni sessuali prima del fratello, pur amato, poi del padre. È così che avviene la sua scoperta del sesso, che lei, dotata di una passionalità spontanea e di un corpo giustamente volitivo, vorrebbe libero e sincero.
Il suo percorso diventa così una strada in salita, un cammino di ricostruzione: per riappropriarsi di se stessa, del suo corpo, della sua mente. E per riconsegnarsi intera all’appuntamento con l’amore.

Fonte: www.delosbooks.it

Latte di Serpe, Delos Books ed. Collana Atlantide

Latte di serpe: Recensione di Valentina Della Corte su "Impatto sonoro":

EROTISMO ALL’ITALIANA: Arriva in libreria una nuova autrice italiana, con un romanzo di formazione dalle forti tinte dell’erotismo vero, vissuto e appassionato.

E’ difficile trovare, soprattutto nei tempi che corrono, qualcuno in grado di liberare attraverso le parole il senso profondo della vita, Laura Onofri vi è riuscita nel suo romanzo. Non credevo si potesse avere tanto coraggio, leggere questo romanzo è stato per me come assistere alla liberazione di un puledro tenuto per troppo tempo prigioniero. Ho sentito su ogni centimetro della mia pelle la vita correre veloce, fermandosi all’altezza del cuore, unico anfratto dove far sentire forte il suo pulsare.
Una vita fuggita, vissuta, sognata, raccontata, una vita non sempre bella, una vita forse troppo spesso tacitamente assecondata, ma pur sempre una vita.
Ho trovato in questo romanzo la presenza prepotente del coraggio della denuncia, una denuncia dai toni forti e violenti, come violenta spesso sa essere la vita.
Mi ha sbalordito il modo attraverso cui scrivendo questo romanzo la scrittrice è stata capace di far provare al lettore paure, emozioni, gioie e dolori che appartenevano solo ai suoi personaggi, ma poi in fin dei conti ho capito che non poteva essere che così. C’è un solo modo di vivere la vita ed è Viverla.
La giovane protagonista è una donna come tante, che ancora oggi sono costrette a rinunciare ad un pezzo di vita per crescere in fretta e spesso a soffocare nel silenzio i dolori che gratuiti vengono loro inflitti, ma è anche una donna capace di alzarsi dal fango in cui è caduta, una donna capace di ricominciare a sognare e di far nascere un fiore in un deserto.

Sono contenta di aver trovato a questo punto del percorso della mia vita, “Latte di serpe”, è stato come raccogliere una gemma persa in un mare infinito di verità, che i miei occhi non erano ancora pronti per guardare. Leggere “Latte di serpe” è come alzare il velo di Maya e guardare in faccia la realtà.

Riflessione su Annunziata

Andando avanti nella stesura, ho descritto incontri e scene che mi hanno riportato alla mente il tempio di Khajuraho, in India, poiché il personaggio si espande e con lei prendono diversa consistenza gli altri. Gli scultori del tempio, che già sapevano dell'umana natura, hanno plasmato corpi nell'argilla, infondendo in essi il soffio di una splendida, vitale carnalità legata al contatto con l'universo. E’ questa, l'energia cosmica che muove lo spirito di Annunziata, depositandola infine, su un piano di consapevole partecipazione alle forze delle Creazione. Ed è per questa sua totalità, che ella rimane incolpevole, seppure, non più innocente.


Opinione inserita da Fabio Barcellandi

21 Aprile, 2009 Top 50 Opinionisti:

Lo consiglio vivamente. Mi ha riconciliato con la lettura di quegli autori italiani che a quanto pare non hanno nulla da invidiare né da temere rispetto ai più, a volte ingiustamente, quotati autori latino-americani. Sorprendente. Una scrittura ammaliatrice, unputdownable come direbbero i più scafati "anglo-americani.

Grazie, Fabio



Tuesday 6 September 2016

Una storia rovesciata


Una storia rovesciata. Ora, che ho appena masticato i primi due grossi biscotti della giornata, ricoperti di cioccolata fondente, - perché tanto non ingrasso, me lo posso permettere -, mi viene da ricordare…A dieci anni ero magra - sono nata, magra? - . Mia madre mi faceva tagliare i capelli corti, alla Giulio Cesare - e sembravo un maschietto, – ma lei mi aveva chiamata con un nome proprio femminile, sì o no? – e io li odiavo così corti. Di notte mi capitava di sognarli lunghi una quaresima, fin sotto il giro vita, anche più giù, a volte, e al risveglio piangevo. In compenso, già m’inventavo di fare miracoli: salivo su una sedia e dichiarando di essere S. Francesco, con uno stecco in mano elargivo fantomatici doni al mio primo amore dell’infanzia, quello assoluto, del peccato innocente. Lui, indifeso, s’inginocchiava davanti a me e spalancava le braccia come ad accogliere la manna. Poi ridevamo e ci facevamo dispetti e io gl’insegnavo a pattinare tirandomelo dietro mentre stava aggrappato all’estremità di una scopa. A pedalare la bicicletta senza il sostegno delle rotelle posteriori, gl’insegnavo. Perché ero più brava di lui. E questo difetto mi è rimasto. E gli amori si spaventano. Undicenne, al mare dovevo girare a torso nudo, l’aveva raccomandato il medico, perché spuntava solo una tettina, mentre l’altra sembrava non volerne sapere. La sinistra. Io mi vergognavo, e la sinistra forse già non mi piaceva, ma di certo era un problema mio perché nessuno in verità sembrava farci caso. A trentanove me l’hanno estirpata. La fatica di crescere l’aveva fatta per niente, e io avevo sofferto una vergogna che mi potevo risparmiare. Quanti fotogrammi di vita, tra allora e oggi? Proverò a contarli anzi, a raccontarli, perché man mano mi sembra di vedere un filo che s’allungava e nutriva e si nutriva di tutto quello che si andava intrecciando. Quando conobbi il ragazzo che poi divenne mio marito, – come sfuma lontana, oggi, quella figura energica e asciutta, che mi sembrava tanto forte –, mi misi mentalmente a fare il gioco del labirinto. Andavo a ritroso per ripescare i passi che mi avevano condotta fino a quel tratto di percorso. A una festicciola in casa di amici avevo conosciuto una ragazza che conosceva un ragazzo che poi provò a corteggiarmi ma non era il mio tipo, – quello, il mio presunto tipo, quando un giorno lontanissimo l’ho incontrato, dopo avermi stravolto altro che l’anima, si è nascosto tra le nebbie di un hinterland milanese praticamente irraggiungibile, un’Avalon nostrana. Lo sai che c’è, ma non la trovi -. Il mio non tipo invece, quello a portata di mano, dipingeva tori nelle arene. Mi regalò un suo dipinto. Oggi so che valore ha, un regalo di sé. Con lui andai a un’altra festa. Avevo già diciotto anni e mi vestii da adulta aspirante maliarda: abito in chiffon nero, stile impero, una rosa rossa appuntata sul seno e capelli raccolti sulla nuca. Uno schianto. Lì conobbi un ragazzo che poi m’invitò a sciare, una domenica mattina. Ma in montagna, con la neve, fa freddo, e per l’occasione mi presentai al portone, alle cinque del mattino – si andava in pullman di quei tempi –, che a vedermi non mi si potevano dare più di dodici anni. Nessun ragazzo mi avrebbe presa in considerazione, vedendomi col berretto di lana e i pantaloni di lana e i calzettoni di lana e gli scarponi chiodati che facevano pensare a un militare. Perfino le trecce mi ero fatta, striminzite, per via dei capelli che non crescevano mai. Comunque, ritenevo intelligente distinguere tra i vari tipi di circostanza. Erano in due, per l’occasione. E c’era anche mia sorella, che perfino per uscire di casa alle cinque di mattina si agghindava sullo chic. Un anno e mezzo meno di me, usciva nel buio che sembrava un’attrice sul set. L’altro era lui, quello energico e asciutto, che nell’occasione sussurrò all’orecchio dell’amico: ma non so’ mica Lionello Egidi! Nel tempo si è ricreduto e ci siamo sposati. E se invece si fosse fermato a quell’ingannevole apparenza? Chissà dove potevo finire. Se lo chiedeva sempre anche lui, quante imprese mirabolanti avrebbe potuto compiere. Io credo di no. Io sì, magari. Fanatica. Esagerata. Ho l’ascendente in Sagittario e il Sole in Ariete: Marte mi agita e Giove mi sospinge e mi protegge. Insieme alla madonnella mia che, a pensarci bene, con me s’è impegnata fin dall’inizio. Quel giorno feci un ruzzolone tale, che a una meno fortunata sarebbe costato la vita. Io, appena un grosso livido al centro del costato. Accesi il mio primo cero in chiesa alla Madonna. Fu gradita, l’offerta votiva, e lei, di gesso come sembrava, mi restò fedele. Non la invoco mai. La chiamo. Puntualmente arriva, mi si mette al fianco e senza parlare – parlo io, in napoletano –, mi accontenta. E’ venuto subito spontaneo, parlarle in quel dialetto pieno di calore, che anche quando è ‘stretto’ non è mai volgare. Le dico scètate, vien’accà, susati e scénne, ca mo’ basta ca dduòrme. Smaterializza! dico, quando guido e la fila di automobili non si muove. E ci posso giurare che dopo un po’ sarà come stare sulla Tivoli-L’Aquila di una decina d’anni fa. Deserta. Se non si sbriga, quasi la sgrido. Ma non si offende, ché la mia è una giocosa finzione. Un segno di confidenza. Arrivata ai quarant’anni avrei voluto che la vita si fosse cristallizzata proprio allora. Potevo dire di essere appena nata, sfuggita com’ero dalle grinfie di un aggressore che non puoi veramente fronteggiare. Devi solo essere protetta da una madonna come lo ero io che, invece di desolarmi m’innamoravo. Che sfacciata. Salvarsi come niente da un tumore fulminante alla mammella. La sinistra. Non era un’amore normale – patisco la normalità, quella che prima o poi diviene sinonimo di abitudine -. Io amavo un dio, uno che mi aveva ammaliata con i suoni che uscivano dalla cassa di risonanza di un pianoforte a coda nero, durante un concerto a Palazzo. Praticamente in delirio, scrissi una dedica sul programma. Firmai e gliela consegnai come si fossero invertiti i ruoli: io avevo suonato e lui aveva ascoltato. Diceva così: as your soul flows out through your fingers, may I touch your hands? Suona bene anche in italiano: poiché la tua anima scivola via attraverso le tue dita, posso stringerti le mani? Gli chiesi un autografo. Quelle stesse mani prodigiose, tremavano. Un anno dopo gli vidi lacrime scendere lungo il viso quando, dopo aver chiesto di vedere le mie figlie, le guardò mentre osservavano la vetrina di un negozio, senza che potessimo scambiare parola. Andò via piangendo e il giorno dopo mi disse: ieri ho capito di essermi davvero innamorato di te. Non aveva figli e stava per divorziare. Era un texano. Cosa potevo offrire io, a un uomo senza bagaglio? Il mio, al contrario, era troppo carico. Con mille spine conficcate in cuore, scivolai via. Come fossi stata Morgana. Anch’io via, tra le nebbie, come te, vita del mio spirito, che sei più della mia anima, e ancora e sempre mi scorre il tuo sangue nelle vene. Ma c’era un sangue reale e un cuore di carne che segretamente si consumava sotto gli occhi miei. Peccato… che peccato che più mortale non si può, lasciarsi inghiottire dalla fame di una maschera indossata a beneficio dell’altrui leggerezza. Il tipo energico e asciutto che da anni in un certo qual modo usciva ed entrava dalla stessa casa mia, in qualità di marito aggravato dalla preoccupazione non solo di lavorare a beneficio di una famiglia numerosa ma, sotto sotto spinto dal timore di non apparire mai grande abbastanza agli occhi di chi così pretendeva considerarlo, covava una grandezza maligna: quella di un muscolo che, dilatato si contorceva, fino a che arrivava il giorno in cui quasi si fermava. E poiché l’amore ha vie traverse e multiformi per dire che c’è, la sofferenza fu totale, condivisa e il pericolo affrontato. E corri e sbrigati che il tempo è ingannatore e quando vuole gioca scherzi fatali. E noi ci sbrigammo e approdammo sulla riva di un mare oltre confine. Un luogo in cui gli interventi sul cuore-muscolo erano già all’ordine del giorno. Coraggioso, spavaldo lui fino all’ultima sigaretta proibita, fumata di straforo, affacciato alla finestra, ché non si accorgessero di quella sfrontatezza. A mezzanotte, la notte prima dell’operazione a cuore aperto. Per essere all’altezza della propria leggenda inventata, chiese di essere dimesso dopo soli undici giorni – era quasi Natale -. Convalescente, dopo nemmeno due mesi si cimentava in imprese sul filo del rasoio. Che non si avvedessero, in particolar modo le figlie, che Big Jim apparteneva al passato delle corse sulle spalle, della coperta trascinata lungo il pavimento della casa, con quattro monelle con gli occhi sgranati aggrappate le une alle altre per non scivolare per quella via. Storie rovesciate le mie - come dire… vissute da piedi… -, perché quando la testa batte e non se ne ascolta il messaggio poi, alla fine, con chi ti vuoi lamentare? Con nessuno, appunto. Anche perché a volte i messaggi della testa sono invadenti, restrittivi, senza slancio. E chi non sopporta di vivere anche da piedi, e si sottomette pavidamente alla testa, magari si perde qualche pezzo di vita da rimpiangere, in un giorno fatale. Troppi spazi personali vuoti, dentro. Guardiana di quattro mura, donna amata nel modo sbagliato, ho scelto ancora negli anni, di andare scalza incontro a una storia tutto sommato come tante, sospesa al filo di un meccanismo che un tempo, nella sua limitata portata, andava a rilento, tra un ufficio postale e l’altro, specie laddove il telefono era uno strumento controllato da vicino, e quindi praticamente inutilizzabile. E non conta essere madri, per non potersi sentire anche figlie – figlie del tempo, di una modernità che travolge, e nella quale s’impigliano anche i capelli più capricciosi. I miei, poi, sono lisci e relativamente sottili… figuriamoci! A volte ci si lascia irretire dalla mancanza di convenevoli perché bastano un ciao, come ti chiami, che bel nome, di dove sei…ora scappo che devo lavorare, ci sentiamo domani. Alle tre. Alle tre, va bene. Ciao. Ma poi finisce che non ti alzeresti più dalla sedia e domani non arriva mai troppo presto. Invece, intorno c’è la vita che scorre. La mia non si fermava da un pezzo. Ero sempre lì a fare giochi a incastro tra tante cose da far quadrare entro le ventiquattro ore che non sono mai abbastanza… la fatica dell’amore di notte da inscenare, una stanza da riordinare, l’inquietante cena da preparare che anno dopo anno era diventata un incubo che sembrava mangiarsi il tempo che rimaneva a disposizione… l’orlo di un pantalone da stirare al volo che, mamma dammi una mano che stasera mi servono, sì sì, quelli neri, quelli che per errore avevo infilato nell’angolo in basso dell’armadio, quello zeppo di cose accatastate, inverno estate e primavera, tutte lì a spartirsi lo stesso spazio – che volete, siamo troppi in questa casa e non ci possono stare solo armadi, ci sono anche i libri, le stoviglie e le chincaglierie da sistemare, ci siamo noi che ci dobbiamo poter muovere, va bene te li stiro, tu studia che tanto io, il tempo di stare sui libri di scuola l’ho consumato. Eppoi, sono contenta che stasera esci ed è buon segno se hai cercato i pantaloni, proprio quelli che ti stanno a pennello. Magari t’innamori. Per via del sentiero su cui mi stavo inerpicando, mi sembrava che tutti dovessero lasciarsi trasportare dalle emozioni. Eppure non c’era neanche la spinta della primavera. Era gennaio. Ma forse era un inverno tepido, con certe giornate che sembrano davvero un regalo, una mela appesa all’albero del serpente. A forza di scrivere ciao come stai, raccontami di te, sì poi ti mando una foto… sì sì, quella di spalle, appollaiata su uno scoglio a mare, che lì si vedono solo le spalle, fosse che di faccia non dovessi risultare fotogenica, non sia mai…, mi ritrovavo innamorata di uno che nemmeno c’era. E’ stata una corsa a ostacoli, uno show ad Ascott, una discesa in picchiata contro un ponte senz’acqua d’attraversare. E’ stato un gioco di seduzione sottile e perversa, una possessione carnale attraverso cui l’anima si giocava il respiro. Ho creduto di vivere un pezzo di vita tutta mia, senza voler vedere che ero diventata il foglio bianco su cui uno spirito inquieto incideva disegni col coltello piccolo e affilato di un cacciatore sprovveduto e perciò crudele. Da madre esemplare, moglie che resta al suo posto come un capitano sulla tolda, - non importa l’entità della tempesta da affrontare -, scoperta e denudata la follia d’amore, ero chiamata puttana da una donna che non voleva analizzare i propri confini, che pur di interrogarsi per capire dove, in che punto, quando, s’era aperto il varco che mi aveva permesso di entrare, trovava più facile inveire. Credevo fosse amore. Vaneggiavo di un cavaliere senza macchia e senza paura. Mi chiamava dea incoronata, da un romanzo la cui lettura avevamo condiviso. Quando mi urtò col silenzio e la fuga, quella stessa corona diventò cerchio di spine conficcato a farmi sanguinare. Poi vidi un Cristo deposto, nella cappella di una chiesa di campagna, e sentii che se lui aveva potuto sopportare, chi ero io per piangere… Oggi sono vedova due volte. Di uno sposo ho seguito il rito funebre, dell’altro ho perso la via per sospirare. Eppure non sono morta, e se vedo un aquilone rimango testa all’insù, neanche ci fosse ancora mio padre a tenermi per mano. E ancora altro guardare all’insù nel cielo, mi toccava sperimentare: in una mattinata di sole regalato, contro un azzurro tanto illimitato e puro da sembrare appeso e insopportabile, ho letteralmente visto mia madre andare in fumo, e ho pensato che il mio amato Chagall quello dipingesse, nei suoi quadri visionari, restituendo volto, colori e fattezze alle anime affumicate e volteggianti dei deportati ebrei sterminati nelle bocche dei forni.